Intervista

La finestrella delle anime

L’ultimo libro di Alberto Paleari racconta un viaggio a piedi tra Valsesia e Valstrona. Un cammino alla ricerca di uomini, luoghi e storie sulle tracce del popolo Walser.

testo e foto di Simonetta Radice

03/05/2020
9 min
La finestrella delle anime è l’ultimo libro di Alberto Paleari e il terzo dedicato a una terra che lui ama molto, la Valsesia.

Il libro racconta di un viaggio a piedi tra Alagna, capitale turistica della Valsesia, e Campello Monti, ultimo avamposto abitato – ma solo in estate – della Valstrona, valle severa e poco frequentata soprattutto dagli italiani, ma ricca di quel fascino che solo certe montagne per così dire “minori” (ma minori di cosa, poi?) hanno preservato. Un cammino alla ricerca di uomini, luoghi e storie sulle tracce dei Walser, che arrivarono in questi luoghi dal versante settentrionale del Monte Rosa tra il XIII e il XIV secolo e vissero come contadini e allevatori mantenendo immutate molte delle loro usanze fin quasi ai nostri giorni, dando un contributo fondamentale all’architettura e all’arte dei luoghi in cui vissero.

E il titolo?
“La finestrella delle anime, in titzschu “Seelabalgga”, era un pertugio praticato in una parete della casa walser che poteva essere chiuso con un blocchetto di legno o con un’anta scorrevole, su cui a volte era incisa una croce. La finestrella veniva aperta quando moriva un membro della famiglia per dar modo alla sua anima di salire in cielo, e veniva rinchiusa subito dopo perché il fantasma non tornasse a tormentare i parenti.”

Val d'Otro
Il "trittico" della Valstrona, da sinistra: Altemberg, Cima Lago e Capezzone.

Per raccontare qualcosa di più sul libro, sui Walser e sulle terre attraversate lungo il cammino, abbiamo fatto qualche domanda all’autore che ci ha anche regalato un documento inedito… ma di questo parleremo dopo.

Il libro racconta di un viaggio a piedi, e a un certo punto affermi di essere stato da poco promosso al rango di escursionista. Che cosa ti piace di più del camminare?
Camminare è per me un ritorno all’infanzia e all’adolescenza, quando con mio padre, che era un macinatore di montagne facili, ho cominciato ad andare in montagna. Poi c’è stato l’alpinismo, l’arrampicata, il diventare guida alpina, ma io sono sempre rimasto “solo” un camminatore. Ora con la vecchiaia il cerchio si chiude. L’escursionismo per me è una disciplina superiore all’alpinismo: scalare una parete, arrivare in cima una montagna implica spesso l’ambizione, l’agonismo, il narcisismo, l’escursionista non si vanta, cammina perché è curioso, l’escursionismo è un’attività culturale. Continuo a praticare l’arrampicata secondo le mie capacità naturali, senza ambizione di raggiungere chissà quali gradi. L’arrampicata è un bellissimo gioco e un ottimo esercizio fisico che mi regala la felicità della precisione del gesto e del formicolio dei muscoli che funzionano.

I Walser sono un popolo che da sempre affascina chi frequenta e ama le terre alte. Che cosa ti ha spinto a seguire le loro tracce?
Per sette secoli i Walser sono rimasti uguali, la loro lingua e la loro cultura sono rimasti intatti, preservati dalla solitudine in cui vivevano. Quando nei secoli bui alcuni di loro per sopravvivere hanno dovuto emigrare nel mondo che intanto progrediva, hanno fatto fortuna, sono diventati architetti, artisti e artigiani, segno che la loro primitività li aveva attrezzati a superare qualsiasi difficoltà. Quando la modernità è salita in montagna, prima con la costruzione di strade e dighe, poi col turismo, la loro civiltà è finita. Salvo rare isole oggi sopravvive come folclore, cosa c’è di più bello che studiarla? E non tanto sui libri ma camminando nei suoi luoghi?

Se la Valsesia deve il suo turismo ad Alagna, la Valstrona è molto meno conosciuta, lontana da qualsiasi turismo di massa. Come descrivere il fascino di questi luoghi a chi non li ha mai visti?
Prima di tutto bisogna dire che su tutte queste valli domina il Monte Rosa, che è pur sempre la seconda montagna delle Alpi. Scendendo poi, l’orografia è complicatissima, ci sono vere e proprie cordigliere di montagne di duemila, duemilacinquecento metri che si potrebbe impiegare una vita a esplorare. A mezza quota si stendono altipiani di pascoli colonizzati già prima che arrivassero i Walser, mentre i fondovalle hanno fianchi ripidissimi e boscosi e sono percorsi da torrenti impetuosi. Ma la vera differenza rispetto ad altre valli la fanno l’architettura e l’arte. A cominciare da Varallo Sesia col suo Sacro Monte, dove hanno operato, fra gli altri, i pittori valsesiani Gaudenzio Ferrari e Tanzio da Varallo, su fino ai villaggi, con le loro chiese parrocchiali, e agli alpeggi più sperduti, con agli oratori e le cappelle votive, è tutto un fiorire di opere d’arte. Secoli di scambi culturali dovuti all’emigrazione e all’ingegno dei valsesiani hanno reso questa terra il regno del buon gusto e della costruzione ben fatta. Campello Monti, in Valle Strona, venti case in tutto in fondo a una valle stretta e lunga, con una strada che prima di percorrerla bisogna farsi il segno della croce (e speriamo rimanga così) ha ospitato nella sua chiesa fino al 1973 un quadro del Guercino.

Questo è il tuo terzo libro dedicato alla Valsesia(1), vuoi raccontare come nasce il tuo amore per questa terra?
Nasce dalla scoperta nella parrocchiale di Vagna, frazione di Domodossola, di un quadro di Tanzio da Varallo, pittore walser nato alla fine del Cinquecento ad Alagna Valsesia. Nel quadro, la Vergine assomiglia molto alla figlia di un mio amico, guida alpina di Alagna di antica famiglia walser. Incuriosito ho scoperto che questo mio amico è un discendente del pittore seicentesco. Da qui al pensare che il pittore avesse adottato come modella una sua parente e che i suoi tratti si siano tramandati per quattrocento anni fino a noi il passo è stato breve. Ho continuato le ricerche e ho scoperto che il pittore aveva avuto una vita molto avventurosa. Benché fino ad allora non fossi mai stato attratto particolarmente dall’arte, cominciai a visitare musei e chiese di mezza Italia ma soprattutto di Varallo e della Valsesia sulle sue tracce. Ho visto i suoi quadri e studiato tutto ciò che ne hanno scritto i critici d’arte. In due anni mi sono immedesimato in Tanzio da Varallo e ho cominciato a scrivere un romanzo su di lui, intitolato “L’angelo che scese a piedi dal Monte Rosa”, che è insieme storico e picaresco, con le avventure, gli amori, la genesi dei suoi quadri e la descrizione del mondo intorno a lui.

(1) gli altri due sono “L’angelo che scese a piedi dal Monte Rosa” e Verso la Montagna Sacra”.

Alberto sul Pizzo Bottarello (Sonnighorn in tedesco)

Lettera alla mia editor
Come abbiamo anticipato, concludiamo quest’intervista in modo insolito. Ogni libro ha una storia ed è naturalmente il risultato di continue revisioni e lavorazioni. Questa lettera è stata scritta dall’autore all’editore, che nel caso di una piccolissima casa editrice come MonteRosa è anche editor, a volte grafico (per fortuna non sempre!), a volte corriere e purtroppo contabile. La parte più bella del lavoro, però, resta quella di leggere i libri e parlare dei libri.

Carissima Simonetta,

     ieri sera mi hai detto della correzioni da fare al testo del mio ultimo libro. Tutte legittime naturalmente, e che farò appena riceverò le tue note. Volevo solo spiegarti il perché degli anacronismi contenuti nel brano del primo capitolo di “La finestrella delle anime” che riguarda l’usanza, iniziata nel ‘600 in alcuni paesi delle valli valdostane e della Valsesia, di far suonare la campane di mezzogiorno alle undici in ricordo della cacciata di Giovanni Calvino da Aosta.

     Ieri sera mi dicevi che il lettore non avrebbe capito il carattere ironico e iperbolico delle parole: mettiamo che quella donna fosse nel seminterrato a stirare, riferite a una contadina walser del 1600 e che, sempre il lettore, avrebbe preso alla lettera quanto affermavo, mentre è molto improbabile che ad Alagna Valsesia nel 1600 si stirassero i vestiti, tantomeno nel seminterrato, dove c’era semmai la stalla.

     Aggiungerei che lo stesso varrebbe per la frase che segue: e aveva messo a cuocere il riso, che è forse ancora più fuori luogo, in quanto allora i soli cereali coltivati lassù erano segale, orzo e panìco.

     Su “Cucina d’Alpe” di Enrico Rizzi (Fondazione E. Monti 2003), di 30 ricette raccolte in tutti i paesi walser delle Alpi, solo 2 riguardano il riso, ma sono adattamenti moderni di antiche ricette fatte col panìco. Se il riso, e soprattutto la farina bianca di grano, giungevano su queste montagne non era tanto per l’uso consueto degli abitanti ma per il molto più lucroso contrabbando: «Con l’occasione di condurre sali di transito, rivela nel 1590 un discorso manoscritto “sopra lo sfrodo del grano” … sogliono nei sacchi comodati alla foggia del sale… estrarre di sfrodo i grani. Oltre alla via ordinaria di valle Anzasca e valle Antrona vi è anche il passo per Varallo Sesia, passando il Monte del Turlo» (Rizzi, op. cit.).

     Quindi, se, provenendo dalle pianure del vercellese il riso passava da Alagna, non era certo per il consumo locale, ma per il contrabbando. Sempre in “Cucina d’Alpe”, di riso si parla solo in una ricetta della val Formazza, ma, come riferisce l’autore: «A Formazza “la minestra bianca” con riso e latte era il piatto tradizionale della vigilia di Natale», cioè molto rara e casomai usata solo nelle feste.

     Ultima e non meno grave incongruenza contiene la mia terza affermazione: il problema più grande era quello dei bambini che a mezzogiorno bisognava andare a prendere a scuola. Che scuola vuoi che ci sia stata nel ‘600 ad Alagna? Forse per i più ricchi quella del prete, ma anche in questo caso non occorreva certo andare a prendere i figli in un villaggio di montagna composto da una manciata di frazioni di poche case ognuna.

     E allora? Domanderai tu: se queste cose le sapevi perché hai voluto a bella posta sembrare ignorante?

     Perché, come dico anche nell’introduzione al mio libro: questo non è un libro serio, nel senso che non si prende sul serio, e spesso, almeno negli intenti dell’autore, è scherzoso e leggero. In esso voglio affermare il diritto, e anche il dovere, della letteratura di raccontare storie, non la Storia, questa l’ha già raccontata il Rizzi.

     Il fatto che nella seconda pagina del primo capitolo di “La finestrella delle anime” si affermi che ad Alagna Valsesia nel 1600 le massaie stiravano i vestiti nel seminterrato, cucinavano tutti i giorni il risotto, e andavano a prendere i figli a scuola, altro non è che una presa in giro, non dei Walser, ma di noi, che viviamo in una villetta urbana nel 2020. Che lo faccia all’inizio del libro da un lato mette subito in guardia il lettore: attento non prendere sempre alla lettera quello che ti racconto, dall’altro però mi fa incorrere nel rischio dell’incomprensione.

     All’inaudito, cioè a quello che non si è mai udito non siamo abituati, ma è proprio compito di un bravo scrittore riuscire a far digerire l’inaudito. Il mio errore è stato di non preparare il lettore all’inaudito, infatti tu stessa mi hai rimprovero la mia prima affermazione, quella del ferro da stiro, ma non la seconda e la terza: digerito il ferro da stiro era già più facile digerire il riso e la scuola.

     Quando riceverò le tue note propongo quindi di correggere la prima frase con: mettiamo che quella donna fosse in casa a fare i mestieri, aggiungerei alla seconda le parole: ammesso che ad Alagna ne fosse arrivato dal vercellese, e alla terza: ma che scuola volete ci sia stata nel 1600 ad Alagna?

     Ricordi il libro “i 3900 delle Alpi”? C’è un mio racconto sulla Nord dell’Eiger in cui immagino che il rifiuto di uno dei vincitori, Anderl Heckmair, di ricevere dalle mani di Hitler la medaglia olimpica, provoca un’insurrezione che fa cadere il nazismo nel 1939, per cui la seconda guerra mondiale non scoppiò. Mi sembrava di aver sparata così grossa che nessuno avrebbe potuto crederci, ma un paio di anni dopo l’uscita del libro mi giunse una email dal direttore di una biblioteca di una sezione del CAI che mi chiedeva conto di tale affermazione. Dovetti spiegargli che avevo fatto uso dell’ucronia, come nel romanzo di Phil Dick “La svastica sul sole”, in cui si immaginava che i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, con le conseguenze del caso.

     Vabbè, l’ho già fatta troppo lunga. Ancora grazie per il tuo lavoro. Ci vediamo presto,

Alberto.

La finestrella delle anime

Autore: Alberto Paleari
Editore: MonteRosa edizioni, 2020
Pagine: 204
Prezzo di copertina: € 16,90

www.monterosaedizioni.it

Simonetta Radice

Simonetta Radice

Giornalista pubblicista, addetta comunicazione. Da sempre amo la montagna e tutto ciò che ha a che fare con essa. La libertà è un poco al di là delle tue paure. Vivo tra Milano e Gignese (VB).


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