Aveva cercato dei bei sassi bianchi nel bosco dietro la casa e li aveva disposti in cerchio sul limitare del prato, là dove la scarpata scendeva a precipizio verso valle, intervallando piante e arbusti a quinte di roccia.
Sul versante opposto le cime, alte sui paesi del fondovalle, penetravano nello spazio libero dall’ampio fogliame dei faggi a guardia della casa, velandosi di luci e ombre, simili a quelle che attraversavano gli occhi di Remo nel susseguirsi dei passi per raccogliere rami secchi, la fronte imperlata di sudore, sotto il sole implacabile del solstizio d’estate.
A metà pomeriggio la catasta aveva raggiunto una considerevole altezza, ma non era ancora abbastanza. Remo la voleva grande come quei covoni di fieno su cui si pianta il palo in verticale perchè l’erba non crolli. Solo così sarebbe stata visibile dalla valle intera, pensava, disegnando sentieri sul terreno riarso, tanto tenace era il suo andare e tornare.
L’aria si era fatta più fresca e le ombre più lunghe sui ghiaioni, che con curve sinuose scendevano assottigliandosi fino a sparire nella distesa dei boschi. Lentamente il cinguettio degli uccelli andò spegnendosi nel silenzio, interrotto a tratti dal gorgoglio disordinato dell’acqua nella fontana. In cielo apparve solitaria la stella di Venere, ma non era ancora tempo di accendere il fuoco. Nella notte più corta dell’anno, il buio tarda a venire.
Remo sedette sulla panca di legno tra la pira pronta per il falò e la fontana. Nel fondovalle le luci dei paesi si accendevano fioche. La mente vagava.
Lo chiamavano Remo Mat, perchè alla sua età s’intestardiva a vivere lassù, isolato nel silenzio della montagna, ma a lui sembrava che i matti fossero loro, quelli del fondovalle, col passo eternamente affannato, o di corsa su auto che gli sembravano ogni volta che scendeva in paese più grandi e ingombranti.
Ma quel giorno tutto era cambiato e diverso. Lo sorpresero le strade deserte e il silenzio. Uno strano silenzio. Non simile a quello della montagna, che scendeva come un balsamo sull’anima, ma un silenzio spaurito di presenze nascoste, come uccelli rintanati tra il fogliame col fiato sospeso al volo circolare della poiana, e nell’aria il vibrare della loro paura. In tanti anni di vita solitaria tra i boschi, Remo aveva affinato i sensi come gli animali e appena messo piede tra le case del paese ne aveva avvertito la presenza.
Dov’erano finiti tutti? Aveva pensato di chiederlo all’osteria, ma al suo apparire sulla porta la proprietaria da dietro il bancone gli aveva intimato di fermarsi.
«Fuori, Remo! Sei senza mascherina!» e di fronte al suo sguardo allibito gli aveva raccontato di un virus che aveva fatto morire tante persone.
Remo aveva ascoltato in silenzio, le braccia incrociate al petto, e aveva tratto un gran sospiro.
«Non è una bella cosa, ma d’altronde la strada è quella. Se uno ha la fortuna di nascere, prima o poi muore.»
«Ma Remo! Che cosa dici! Cosa vuoi sapere tu, che vivi lassù come un eremita, senza televisione, senza conoscere niente di quel che succede! A te non importa nulla di nessuno!» aveva esclamato la donna con livore.
«Ma dove sono finiti tutti?» chiese di nuovo l’uomo.
La barista lo fulminò con lo sguardo.
«Dentro casa sono finiti! Stanno al riparo, non come te, che vai in giro a contagiare la gente!»