Racconto

Perdersi nel Selvaggio Blu

Il Selvaggio Blu affrontato come una vacanza di coppia e terminato come una prova di resistenza: senza punti di appoggio e con una semplice cartina muta. Ma questa avventura in tutta libertà sembra avere le ore contate.

testo di Saverio D'Eredità, foto di Paola Finali  / Udine

28/03/2019
7 min

L’esperienza di un Selvaggio Blu in tutta libertà, come ci viene qui raccontato da Saverio D’Eredità, sembra avere le ore contate.

E’ infatti di questi giorni la proposta di istituire un ticket per accedere al Selvaggio Blu. Il Consiglio Comunale di Baunei delibererà domani l’istituzione del numero chiuso (massimo 40 persone al giorno) e un ticket da 30 euro per escursionista. Intanto il Club Alpino Italiano sardo, il Gruppo di Intervento Giuridico e la Federparchi si sono schierati contro questa proposta. Contestano, non tanto il numero chiuso e la tariffa, ma l’obbligo per tutti di fare il Selvaggio Blu appoggiandosi alla logistica e al personale che metterebbero a disposizione i gestori. “Non accettiamo che venga lesa la libertà di un’escursione, una volta rispettate regole e condizioni di sicurezza”.

La bellezza di questo percorso sta anche e soprattutto nel senso di avventura che può offrire, come ci dicono Graziella e Saverio: “… in fondo cercavo proprio questo. Riaffermare una libertà d’azione su un territorio scevro da indicazioni, tracce battute, metri quadri recensiti. Trovare il passaggio giusto, annusare la traccia, riscoprire un istinto animale”.

In futuro, perdersi nel Selvaggio Blu, sarà ancora possibile?
la redazione di altitudini.it

Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato.
Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì ci è difficile riconoscerla.
Per questo siamo attratti dalle montagne.
Tiziano Terzani

UNO. Ovvero del perdersi e del trovare
Nei giorni precedenti la tentazione, lo ammetto, era stata forte.
Si trattava in fondo solo di prendere il libretto di istruzioni dimenticato in fondo ad un cassetto con la scatola di acquisto, aprirlo e mettermi una buona volta a leggere le varie modalità e funzioni del GPS da cui solo un’imperdonabile pigrizia mi aveva tenuto lontano.
La preoccupazione d’altronde cresceva proporzionalmente al diminuire dei giorni di attesa, ed ero già passato dalla fase onirica a quella ben più concreta della riflessione razionale. Fare il Selvaggio Blu è sicuramente una di quella fascinazioni che possono mantenerti in una dimensione inconsistente per tanti mesi. Solo che al momento di fare lo zaino, calcolare i litri d’acqua, razionare il cibo e spaccarsi la testa centellinando anche il numero di cerotti cominci a capire in che razza di impresa stai per imbarcarti.
Ecco, fare il Selvaggio Blu è sicuramente una bella idea. Ma trovarsi ad una settimana dalla partenza senza carte topografiche (tranne quella di una nota rivista di viaggi, per giunta al 50.000 e grossolanamente tracciata), con l’aggravante che questa rappresenterà la settimana di ferie estive insieme alla moglie è ai limiti dell’uxoricidio. Per rassicurare Graziella mi ero limitato a descrivere questa escursione come un “Sentiero Rilke… solo un po’più lungo e meno segnato (1)” definizione neanche troppo distante dalla realtà tutto sommato, ma evidentemente forzata.
Sarebbe toccato quantomeno informarsi sfruttando i potenti mezzi della rete e lasciando certe tentazioni “naif” (tipo andare nella natura per perdersi tra gli orizzonti blu e i profumi della macchia mediterranea) ad altri momenti, possibilmente riservati alla dimensione del divano o alla modalità “sogni ad occhi ad aperti”.
Recuperata una certa solidità più adatta all’escursionista non totalmente sprovveduto (o almeno non candidato a fare la figura del pollo raccattato a bordo spiaggia a metà giro), reperisco un paio di relazioni tutto sommato combacianti e persino una carta IGM in una fornitissima edicola libreria di Cala Gonone dove, tra le altre, mi accaparro un’ottima copia di Vertical con uno speciale sul Pilastro del Freney. Con il forte sospetto che fare vie di arrampicata sia sicuramente più rilassante.

Ridurre tutto all’essenziale. Occhi, gambe e cuore. Nient’altro.
Chi non ricorda, ai tempi della scuola il terrore generato dalla visione della temutissima “cartina muta”? Dove posizionare una città o dare il nome ad un fiume in quel deserto bianco e grigio senza connotati?
Ecco, la carta IGM fresca di acquisto la ricordava in tutto. Chiazze bianche, linea di costa, sentieri che partono e svaniscono nel nulla: in effetti se un sentiero teoricamente non c’è, inutile cercarlo su una mappa.
Ma in fondo cercavo proprio questo. Riaffermare una libertà d’azione su un territorio scevro da indicazioni, tracce battute, metri quadri recensiti. Fare della mente una mappa morfologica, farsi canale, valle, pendio, bosco, mare. Procedere con il sole e con la terra. Ridurre tutto all’essenziale. Occhi, gambe e cuore. Nient’altro.
Nella ricerca di informazioni sul Selvaggio Blu noto tuttavia che si è passati dal nulla mitologico (scarne relazioni, impressioni generiche, cartografia approssimativa) alla strumentazione più raffinata. Saltando a piè pari l’onesta fase della “mappa” si è arrivati direttamente alla traccia GPS. Che del resto sarà, sempre che non lo sia già, lo strumento di orientamento che man mano manderà in pensione righelli, squadre, bussole, orologi e meridiani.
Ecco, io – naturalmente scarso in geometria e dotato di altrettanto scarsa abilità tecnologica – non ho mai imparato né l’uno nell’altro sistema. E questa forse sarebbe stata l’occasione buona per prendere il famoso libretto di istruzione ed imparare – una buona volta! – come funziona il GPS.
Ma è stato più forte di me. E per una forma di orgoglio che nasce dalla pigrizia prima ancora che da solide convinzioni ho deciso che quanto avevo appreso in anni di montagna poteva bastare. Carta IGM, relazione e tanta pazienza.
Un po’come ci siamo ritrovati ad usare il cellulare perdendo per strada i gettoni delle cabine telefoniche, così voglio riservarmi il sottile piacere di usare ancora un metodo di orientamento basilare, praticamente solo sull’osservazione del terreno prima che GPS e cartografia digitale prendano definitivamente piede.
Non sto esattamente cercando di “perdermi” come verrebbe facile pensare – chi oggi, è veramente in grado di perdersi quando siamo costantemente tracciati e tracciabili nel reticolo del controllo satellitare mobile? – quanto piuttosto di “trovare”. Trovare il passaggio giusto, annusare la traccia, riscoprire un istinto animale.

E per una forma di orgoglio, niente GPS. Carta IGM, relazione e tanta pazienza
Graziella e Saverio

Graziella e Saverio

L’attesa si carica di tensione positiva, inframmezzata dai calcoli sulle vie di fuga
Tutto comincia a Baunei, che ha tutta l’aria di un paese di confine, estremo, le cui ultime case preludono ad un altipiano rasato dal vento e dai maiali selvatici che come decespugliatori ne spazzolano le rade erbette. È qui che giungeremo tra quattro giorni e già facciamo i calcoli di quanto sarà pesante marciare con gli ultimi carichi scomposti lungo le stradine polverose dell’altipiano del Golgo o se invece dovremo difenderci dall’attacco di qualche cinghiale ingolosito dalla nostra spazzatura. Ci aggiriamo tra massi basaltici stondati e bizzarri, brucati da asini, capre e maialini. Sembra un’arcadia, un luogo senza tempo, silenzioso e remoto. Eppure a pochi chilometri in là e in giù, difeso dalla feroce macchia mediterranea, ci attende il mare più bello.
Sbrigate le ultime faccende ci dedichiamo ad un relax che assomiglia sempre meno a quello di una vacanza e molto più a quello che precede le grandi avventure. Persino la signorina dell’ostello ci ammonisce dall’affrontare soli il Selvaggio Blu.
«Ma che siete matti? Ci si perde di là!» ci dice mentre saldiamo il conto dell’ultima notte e, forse, della nostra vita fino a quel momento.
L’attesa si carica di tensione positiva, inframmezzata dai calcoli sulle vie di fuga (e se scappassimo via mare?) anche se mi inquieta di più la possibile carica dei cinghiali notturni e il campeggio sperso sull’altipiano. Osservando l’orizzonte marino da un tramonto poco convinto cerco di sintonizzarmi sulla mia dimensione più consona.
In un certo senso vorrei ritrovare una prospettiva diversa, orizzontale o meglio “diagonale” libero dall’ansia della cima, del tiro o del passaggio semplicemente traendo un piacere quasi primitivo dato dalla sensazione di attraversare un paesaggio. Osservo la costa che si allunga sinuosa oltre le scogliere del capo santo, in un andirivieni di rientranze, calette, falesie per 50 km fino a quella Cala Gonone che sembra appartenere quasi ad un altro continente. La mia curiosità, in fondo, è identica a quella dei primi che percorsero quello che sarebbe diventato il Selvaggio trenta anni fa. Una curiosità geografica, quella di coprire a piedi un tratto di costa disabitato e antico, spoglio di segni umani e strade.
Come forse non capiterà più in un futuro.

L’attesa si carica di tensione positiva, inframmezzata dai calcoli sulle vie di fuga

DUE. Il Porto di Ulisse
Ore 14. All’ombra magra di un alberello di sughero mando giù una pastiglia di potassio e magnesio senza scioglierla in acqua per risparmiare riserve. La bocca si riempie di una schiuma orribile e sono convinto di aver sbagliato qualcosa. All’appello mi manca un mezzolitro, ci rimangono appena 300 cl di acqua in due e un numero di ore indeterminabile davanti. E se il rifornimento non arrivasse? Se dovessimo resistere una notte e un giorno ancora così? La situazione diventerebbe decisamente preoccupante, considerando che il primo punto di appoggio è minimo a tre ore di cammino nella macchia più feroce e implica la risalita di uno dei tanti bacu che scendono dall’altipiano al mare. Dobbiamo sperare che il rifornimento ci sia, in poche parole. E sperare di arrivarci, cosa non scontata.
Oggi io e Graziella siamo veramente una cordata. Forse un’esperienza che non ci era mai capitata prima. Siamo soli come su una parete, qui. Lontani da tutto, imprigionati tra la terra e il mare, come tra il cielo e la roccia. Quel mare che è speranza e tortura al tempo stesso. Una distesa d’acqua troppo salata per saziare la nostra sete e troppo lontana per essere la nostra fuga. Giocoforza, dovremo ancora trovare la nostra via leggendo le pieghe della terra. Ometto dopo ometto, rintracciando come rabdomanti sporadici bolli blu ci facciamo avanti.
Ci affacciamo nel Bacu Tenadili, chiave di accesso al porto della salvezza. In fondo al vallone, la carcasse di un caprone morto giace in quel silenzio che solo la morte sa creare. Bisogna superare una paretina di terzo, immeritatamente ripida ed esposta che di fatto è il nostro passaggio chiave e ha sempre il suo fascino inquietante. Bisogna arrampicare per davvero! Il calcolo dei metri di cordino si rivela giusto al millimetro e riesco a recuperare Graziella che se la cava alla grande anche all’ottava ora di marcia, confermando che la tempra femminile è tanto insospettabile quanto superiore a quella maschile.
Ci lasciamo quindi dietro il caprone e il bacu, affacciandoci sull’insenatura di Porto Pedrosu.

Costantemente in bilico tra mare e terra
Ore 18. Non sono bastati gli anni passati a cercare gli attacchi delle vie, concatenando linee di cenge come i puntini di un quiz. E nemmeno certi canaloni scesi nel white out delle nevicate. No, dovevo venire qui, in questa costa ruvida, costantemente in bilico tra mare e terra, per ritrovare il piacere di “cercare”.
Mi faccio avanti nella macchia, aprendo un varco tra cespugli di ginepro e corbezzoli. Mani di resina, piedi trafitti dalle pietre appuntite, spalle collassate dal peso e dal sole che batte impietoso. Eppure lo sapevo che il Selvaggio poteva essere una trappola. Maledico la cartina muta, il libretto di istruzioni e la mia scarsa abilità in geometria. Ripenso agli ineffabili istruttori di un corso CAI che sogghignano di fronte alla mia poco scientifica capacità di orientamento snocciolandomi la teoria del falso obiettivo e della triangolazione. Chissà se ce la farebbero a venire fuori da qui, quando la famigerata “quota 81” che dovrebbe farmi da riferimento risulta invisibile nel folto della giungla in cui siamo affogati. Vado avanti a tastoni, bisogna essere animali prima che uomini qua. Annusare la terra, toccare gli alberi, per capire se c’è qualche traccia di passaggio. Segni di scarpe, un rametto spezzato.

Segni di suole. Un accenno di traccia. Un segno!
Forse ci siamo. Riappare una traccia, la seguo dieci metri, poi scompare come un fantasma. Credo di impazzire, nella ora crepuscolare vedo un segno blu ma è e solo l’ombra in un sasso. 300 cl di acqua non ci basteranno e Graziella si lascia andare in un sconsolante “se non troviamo l’acqua entro mezzora sarò cibo per mosche”. Ripenso al numero di Vertical, al Freney e scorgo inquietanti analogie.
Tutto questo sembra uno scherzo poco divertente. I segni blu ci accompagnano con la traccia evidente e scompaiono quando questa viene inghiottita dalla selva. Di nuovo vago a tentoni inventandomi una traccia che non c’è, mentre il rumore del mare si fa sempre più vicino e per certi versi angosciante. Da un lato ci sono le scogliere, dall’altra la giungla. La via è in mezzo, ma non si vede ed ogni metro percorso sembra valerne cento.
Poi un’intuizione. Fuggo dal cuore della selva più fitta e ormai semibuia, scavalco una dorsale di bosco più rado dove una maggiore luminosità lascia intuire spazio e quindi visibilità. L’intuizione è giusta. Anche se la dorsale non risolve nulla come visibilità mi fa incontrare un minuscolo ometto – appena due pietre accostate non naturalmente. Più in là un altro più “adulto”. Infine segni di suole. Un accenno di traccia. Un segno!
Lo scherzo è finito, mi sembra di sentire ridere la signorina dell’ostello e tutto il complotto locale contro gli escursionisti senza guida. Slego Graziella che scende con imprevedibile spensieratezza l’ultimo tratto esposto mentre corro verso la caletta.  Un bosco accogliente, una panca…la cassa dei viveri!
Mi sento Robinson Crusoe mentre strappo la bottiglia d’acqua, la bevo a collo e così come sono mi butto nell’acqua del fiordo di Porto Pedrosu. Soli, ma non cibo per mosche e nemmeno carcasse di caproni, prepariamo il bivacco più bello, in fondo ad un insenatura che ha qualcosa di epico. Come l’ultimo porto di Ulisse.

Se non troviamo l’acqua entro mezzora sarò cibo per mosche

TRE. Sentieri rimossi
Questi sentieri hanno qualcosa di remoto, e persino rimosso. Vuoti gli ovili sapientemente ricavati dal nulla dei tronchi e delle pietre, ora addossati ad una parete, ora intrecciati così fittamente nel bosco da essere invisibili. Una mulattiera con muretto a secco compare miracolosamente quale segno di un’antica civiltà per poi sparire. Più che escursionismo è una forma di archeologia. Eppure cento e passa anni fa questa era la risorsa energetica d’Italia. Il lavoro dei carbonai oggi è praticamente invisibile, e sembra quasi impensabile il gran traffico di una volta! Oggi ci insegue il grido stridulo di un falco o qualche lamento di capre sperse.
Con il passare dei giorni ho imparato a distinguere alcuni segni prima incomprensibili, come le pietre incastrate tra gli alberi quale enigmatico segnavia. Persino i rifiuti delle barrette energetiche tornano utili.
Col passare dei giorni, riarsi dal sole, dal vento abbiamo cominciato a sentirci secchi, abbiamo cominciato a sentirci pietra e terra.
Col passare dei giorni ricordiamo il cammino alle spalle come fossero strofe di poesie. Capiamo ore le tradizioni degli aborigeni australiani che usavano ricordare le loro vie affidandole ai canti.
Affrontiamo quindi con saggia lentezza l’ultima risalita ormai fiduciosi di raggiungere Cala Goloritzè ben prima di sera.
Oltre un’ultima spalla che mi sembra l’Hillary Step dell’Everest sento delle voci. Dalla macchia sbuca una coppia di tedeschi gioviale e rilassata a cui devo sembrare un profugo. Solo ora mi accorgo che da 4 giorni non abbiamo visto anima viva né parlato con nessun’altro. E parlare adesso ha quasi un altro sapore, un altro peso. Impareremo ad usare meglio anche le parole e amarle, forse, come l’acqua o il cibo che abbiamo centellinato. E che scopriremo, oggi, essere più di quello che ci serviva.

Riarsi dal sole, dal vento abbiamo cominciato a sentirci pietra e terra

QUATTRO. Le notti del Selvaggio
Il blu è il colore della mente, delle sensazioni profonde, della riflessione e della saggezza. Blu è il colore di quel mare e di quel cielo che sono stati per giorni i nostri unici confini.
Blu il colore delle notti passate lungo questo tratto del Selvaggio.
Quelle notti, lunghe come i giorni, passate a riordinare un catalogo dei suoni, dei rumori, delle paure. Ore che hanno scoperto lo strato più sensibile e fragile di noi e al tempo stesso rivelato una scorza più dura e resistente.
Non è facile abituarsi alla notte. A quella notte, così piena di movimenti misteriosi e ombre e fruscii. E man mano entrarvi in confidenza. Ci rassicurava infine, il volo serale del pipistrello.

La prima notte l’abbiamo passata sotto una coppia di lecci secolari che ci hanno generosamente concesso riparo e un letto morbido di foglie e terra. Ho ripensato alle parole di Hotel Supramonte – e ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome/ora è il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme/ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano…
Il vento gonfiava la notte come una vela, ma i lecci sembravano offrirci una veglia paziente.

La seconda notte, nell’anfratto nascosto del Porto Pedrosu, il mare ci ha cullato e protetto. Quel mare che tutto il giorno era stata la nostra ansia e la nostra prigione sospesa, ora ci rassicurava.
Infine, sotto una gigantesca bocca di pietra ai piedi della Guglia di Goloritzè, abbiamo passato l’ultima di queste notti. E il mare e il vento sembravano lottare uno coll’altro a riempire la notte di uno spazio sonoro sconosciuto. Il vento dell’altipiano correva violento lungo il bacu incontro al fragore delle onde, che erodono millimetro per millimetro i pilastri fragili di questa scogliera.

In questi notti del Selvaggio abbiamo imparato ad essere come le pietre che abbiamo calpestato, a lasciarci scorrere addosso le paure e le ansie.
Forse apprezzando di più le parole di un poeta greco studiato al liceo e solo adesso compreso “Dormono le cime de’ monti e le vallate intorno, i declivi e i burroni; dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare” (2).
_____
(1) Passeggiata naturalistica sul golfo di Trieste, a picco sul mare, che collega Sistiana a Duino. Il sentiero prende il nome dal poeta praghese Rainer Maria Rilke (1875-1926) che, ospite al Castello di Duino dal 1911 al 1912, come già lo era stato Dante prima di lui, vi compose le sue celeberrime “Elegie Duinesi”.
(2) Alcmane “Frammenti”

Abbiamo imparato ad essere come le pietre che abbiamo calpestato, a lasciarci scorrere addosso le paure e le ansie
Saverio D'Eredità

Saverio D'Eredità

Palermitano di nascita, udinese d'adozione, alpinista (dilettante) per scelta. Camminare, scalare, sciare e scrivere sono i diversi modi in cui amo esplorare le montagne. Un giorno qualcuno gli chiese "ma cosa ci fa un palermitano sulla neve?” e da allora sta ancora cercando di dare una risposta. Nel frattempo scia, scala e scrive, ma nessuna di queste cose la prende veramente sul serio. Ha pubblicato alcune guide alpinistiche sulle Alpi Carniche e Giulie, condivide pensieri e racconti sul blog “Rampegoni”, ma ci tiene a precisare che tutto questo lo fa comunque nei ritagli di tempo, quando non si occupa di progetti europei e soprattutto dei figli.


Il mio blog | Rampegoni è un blog a quattro mani, ideato e sviluppato da Saverio D’Eredità e Carlo Piovan. Nato come costola dei siti web Rampegoni e Quartogrado, si propone di raccogliere spunti, pensieri, riflessioni sul mondo verticale e non solo, ampliando lo sguardo oltre i meri dati tecnici per tornare al vissuto dell’alpinismo.
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