Recensione

SUL CONFINE

Il nuovo libro di Alberto Paleari per MonteRosa edizioni, racconta di linee immaginarie create dall’uomo per dividere ma, inevitabilmente, anche per congiungere e per essere attraversate. È un libro di montagna dove non importa arrivare in vetta.

10/10/2021
7 min
Nella storia della “conquista” delle montagne, prima delle cime furono i passi a essere frequentati dalle persone: vie di comunicazioni importanti per lo scambio delle merci e, soprattutto, per permettere il movimento dei corpi, quanto mai consustanziale al genere umano.

Il nuovo libro di Alberto Paleari per MonteRosa edizioni “Sul confine” racconta proprio questi luoghi, creati dall’uomo per dividere ma, inevitabilmente, anche per congiungere e per essere attraversati.

Il libro racconta, nella forma di un diario di viaggio, i 34 tra passi e bocchette che si aprono fra Italia e Svizzera nelle Alpi Lepontine occidentali, dal Passo del Sempione al Passo San Giacomo. È un libro di montagna dove non importa arrivare in vetta, dove storia e geografia si intrecciano e dove c’è sempre il tempo per parlare con le persone che questi territori li vivono e li attraversano. Un libro di montagna che è anche un libro di ritratti, di cui Altitudini pubblica un estratto in esclusiva.

Alpe Vallescia

A Bugliaga in inverno

Ero rimasto d’accordo con Norma che sarei tornato prima di Natale a prendere la toma che le avevo fatto mettere via. Mi disse che fino a inizio dicembre stava a Cima Ai Campi, poi secondo il tempo, sarebbe andata fuori a Bugliaga. Così il 12 dicembre, che era una giornata limpida e gelida, la prima giornata veramente invernale dell’anno, salii con Livia ed Enea a Bugliaga. Prima di partire avevo telefonato due volte per sapere se la Norma era a casa, il telefono suonava ma lei non rispondeva e ho pensato che stesse mungendo. Comunque andammo lo stesso perché avevamo voglia di vedere Bugliaga con la neve, e poi il Valerio, un mio amico di Gravellona, mi aveva detto che lì potevo anche trovare del formaggio di capra fatto alle Possette dalla sua amica Letizia. La neve è cominciata al bivio della strada di San Domenico, e anche l’ombra. Il termometro della macchina è sceso di colpo da zero a meno tre, sulla chiesa di Trasquera è arrivato un raggio di sole, poi siamo di nuovo entrati nell’ombra. Il ponte del Diavolo sembrava l’ingresso di Malebolge, Tutto di pietra di color ferrigno, con ghiaccioli appesi alle rocce e una luce livida che si affacciava dagli strapiombi da cui scende il rio Ri, chiamato su alcune carte Gurva. La piazzetta di Bugliaga, anch’essa all’ombra, era coperta di neve: le dieci di mattina, 1314 metri, il termometro segnava meno cinque.

Speravamo di trovare qualcuno che sapesse dove abita la Norma ma in giro, a parte Enea, non c’era un cane, guardammo se qualche comignolo fumasse: niente. Scendemmo fino alla strada per Bugliaga-Dentro, ma non trovammo nessuno e le case erano tutte chiuse, allora tornammo alla macchina e da qui salimmo per la stradina delle frazioni alte, sbucando al sole poco sopra la Torre, una casa-forte con imponenti architravi di gneiss posate sopra porte e finestre da uomini sicuramente giganteschi.
Al sole si stava bene, anche se i piedi nella neve farinosa rimanevano gelati, finalmente vidi una ragazza che camminava davanti a noi, la raggiunsi e le chiesi se era del posto. Disse di no ma lo conosceva abbastanza. Non sapeva dove abitava la Norma però mi spiegò dov’era la casa della Letizia. Così ridiscendemmo verso Bugliaga, e appena rientrati nell’ombra prendemmo la strada per l’Alpe La Balma. Dopo un centinaio di metri trovammo il marito della Letizia che arrivava dalla stalla.

Ci disse di chiamarsi Franco, era già un po’ avanti negli anni, aveva i capelli bianchi ed era vestito abbastanza leggero per quel freddo, ma si vede che i montanari lo soffrono poco. Il formaggio di capra l’aveva finito e ormai le capre erano in asciutta fino a primavera, gliene rimaneva di vacca. Gli dissi che per quello erogià d’accordo con la Norma, gli raccontai tutta la storia e ne approfittai per chiedergli dove stava. Me lo spiegò e mi disse che lei era venuta fuori da Cima ai Campi da poco.
Una normale conversazione cittadina sarebbe finita lì, ma non eravamo in città, infatti Franco ci invitò in casa a prendere il caffè.
Salimmo una scaletta, lui prima di entrare tolse gli scarponi sporchi della stalla, poi entrammo, anche Enea, che era spaesato e si aggirava per la cucina circospetto, forse aveva paura della stufa a legna che brontolava e fischiava, era la prima volta che ne vedeva una.
Parlammo un po’, Franco mi raccontò che aveva fatto il guardiano delle dighe: Lago d’Avino, Valle Antrona, Vannino, poi mi chiese:

– Sei già stato al d’Avino? – avevamo deciso di darci del tu visto che siamo quasi coetanei.
– Sì, sono stato anche quest’estate, dal passo sopra Ponte Campo, – non me ne veniva in mente il nome (Passo del Croso).
– Allora ci sei andato da Drosina.
– Sì, sì, da Drosina, – risposi, e non mi stupii che da alpigiano qual era dicesse il nome dell’alpe e non quello del passo, anche se Drosina (sulle carte Drozina), più che un alpeggio è un prato così ripido che non penso ci possano pascolare le vacche, al massimo le capre.
Si stava bene lì, faceva caldo e il caffè del pariulin era buono. Franco raccontava, raccontava tutta una vita: l’alpeggio di Pianezzoni che con tanti sacrifici aveva rimesso a nuovo, e, di qua del Passo delle Possette, Ciampaldino, dove tiene le capre, e poi le tre figlie, due laureate, e i nipotini di cui ci fece vedere le fotografie.

Il ponte del Diavolo
Bugliaga in Valle Divedro

Mi raccontò delle capre che aveva perso, “incengiate”, disse, cioè finite su una cengia della roccia da cui non erano più state capace di scendere, e che era andato a recuperargliele una guida di Varzo, il Geo. Gli dissi che lo conoscevo perché anch’io ero una guida, e che anch’io una volta ero andato a tirare giù da una cengia del Monte Cerano delle capre di uno di Gravellona.
– Bisogna stare attenti, disse lui, – non ci mettono niente a buttarti di sotto.
Eh lo so, lo so bene, pensai senza dirglielo, ma solo annuendo. Prima di andare promettemmo che saremmo passati dopo Pasqua a prendere i formaggini di capra e l’estate prossima saremmo andati a Pianezzoni a trovarlo.
Mentre cercavamo la casa della Norma chiesi a Livia:
– Ma noi, se ci arriva a casa uno sconosciuto a chiedere un’informazione, lo invitiamo dentro a bere il caffè?
– Eh no, però qui, specialmente in inverno, non hanno tanta gente con cui parlare, e poi non eravamo proprio sconosciuti, gli avevi detto no, che eri amico del Valerio?
– Sì, però lo stesso, noi non siamo così ospitali, anche adesso che siamo in pensione non avremmo tempo di intrattenerci con un viandante, di scambiare con lui ciò che sappiamo del mondo, io ho sempre da scrivere le mie storie e anche tu hai mille impegni.

La casa della Norma la trovammo facilmente, era un gruppetto di baite con la stalla e il fienile, c’era anche un gatto che quando vide Enea scappò su per il fienile. Affondato nella neve c’era un trattore rosso marca Valpadana, la Norma però non c’era, aspettammo un po’ ma faceva freddo perché il sole era tramontato dietro le montagne di Bognanco, così tornammo a casa: alla sera le ritelefonai e ci accordammo per trovarci il giorno dopo.
Vi tornai da solo, il tempo era nuvoloso, a Varzo di notte era venuta una spolverata di neve, a Trasquera ce n’erano già cinque centimetri di nuova e ogni tanto si slittava un po’. Poco dopo incontrai lo spazzaneve, feci una ventina di metri in retromarcia per trovare una piazzola e lasciarlo passare; al ponte del Diavolo mi fermai a scattare qualche foto al paesaggio reso fiabesco dalla neve fresca sugli alberi e le rocce a picco sul Ri gelato.

Il termometro a Bugliaga segnava quattro sotto zero, intorno era tutto bianco, di neve fresca ce ne saranno stati dieci centimetri e solo sulla stradina che va verso le Possette c’era una traccia di piedi che salivano. Dopo il bivio per la casa del Franco la neve era fredda e leggera e non c’erano più tracce: si vede che quella mattina la Norma non era uscita. Più avanti il trattore Valpadana aveva un non so che di ritirata di Russia: ripartirà questa primavera? Mi chiesi. Giunto alla sua casa vidi tracce che andavano alla stalla, al fienile, e al trampolino da cui pensai che la Norma rovesciasse il letame con la carriola.

Alberto Paleari

Mi accolse col suo bellissimo sorriso, non ci ricordavamo se ci davamo del tu, decidemmo di sì. Restammo un po’ in piedi in cucina poi mi fece accomodare di là, naturalmente dopo aver messo a bollire il caffè sulla stufa economica. La cucina era piuttosto piccola e anche il soggiorno non tanto grande, mi venne da pensare che non c’era molta differenza tra la casa che ha in paese e quella dell’alpe. Questa era solo un po’ più grande e luminosa e in più nel soggiorno c’era un bel fornetto di pietra con la data, 1908, comunicante con la stufa in cucina. C’era anche una specie di cassapanca con sopra un materasso e una trapunta dove pensai che dormisse. Sopra c’erano sei o sette gattini che sonnecchiavano, giocavano o facevano la lotta, c’erano anche alcuni gatti adulti, uno tigrato venne a farsi accarezzare ma non fece le fusa.

La Norma mi raccontò che il formaggio l’aveva su a Cima ai Campi, l’alpeggio di tramuto, ed era andata a prenderlo il giorno prima: aveva fatto una bella passeggiata perché le piace camminare, ma non farlo a vuoto, cioè non le interessa camminare tanto per camminare o per vedere un posto, ma solo per uno scopo, per un lavoro, per prendere o portare qualcosa che le serve da un posto all’altro. Non riusciva a capire quelli che vanno in montagna per turismo.
– Che senso ha?
Ci pensai su un po’ prima di dirle che anche per me è la stessa cosa, se non fossi diventato guida avrei smesso chissà da quanto di andare in montagna, anch’io come lei ci sono andato per più di quarant’anni per lavoro. Mi guardò strabiliata: che lei andasse in montagna per lavoro era normale, che lo facesse un cittadino lo trovava bizzarro.
– Però ti piace, no? – mi disse.
– Certo che mi piace, mi piace da matti, – risposi, – e a te?
– Anche a me.
– E allora siamo fortunati, facciamo tutti e due un lavoro che ci piace.
– Però, – disse lei, – l’altra volta mi avevi detto che la guida non la fai più.
– Sì, adesso in montagna vado per scrivere libri. Chissà che un giorno non scriva anche di questi posti e di te.

Mentre andava nel cantinino a prendere il formaggio feci il conto dei traslochi che fa la Norma in un anno: in primavera da Bugliaga a Cima ai Campi, poi a luglio da Cima ai Campi a Vallescia, a settembre da Vallescia a Cima ai Campi, infine a inizio dicembre da Cima ai Campi di nuovo a Bugliaga: quattro traslochi all’anno e chissà se porta anche i gatti. Mi accorsi che la preoccupazione per i gatti era fuori luogo visto che nei traslochi erano comprese una quindicina di vacche, ma io in tutta la vita ho fatto tre traslochi e ogni volta ci ho messo più di un anno a riprendermi, e non avevo né gatti né vacche.
Dopo un po’ arrivò con una bella forma di formaggio fatto in alpeggio. Disse che erano di metà agosto, la crosta era dura e compatta, asciutta e senza imperfezioni, l’avevo già assaggiato a settembre quand’era fresco, adesso sarà stato ancora migliore. Ci salutammo e ci demmo appuntamento per l’estate, mi raccomandò di stare attento a camminare sulla neve, sotto poteva esserci del ghiaccio, era facile scivolare, lei quando è così fredda se ne sta a casa ad aspettare che s’ammorbidisca, mica di cadere e rompersi qualcosa.

Al ritorno mi fermai a Trasquera a fotografare la chiesa, si fermò anche una coppia in BMW, lui aveva uno smartphone con la prolunga per fare i selfie. Feci una visita al cimitero dietro la chiesa dove pensavo di trovare, per fargli un saluto, la tomba della guida alpina Remo Sartore, originario di lì, che però viveva a Domodossola.
Era stato mio istruttore di scialpinismo quand’ero ragazzo e divenne mio amico quando entrai nelle guide alpine. Nel pieno della carriera ebbe un attacco di cuore che lo costrinse a una vita tranquilla e regolata. Era un uomo di grande bontà e gentilezza, alle riunioni portava sempre un fiasco di vino da bere insieme e quando una guida moriva andava al funerale col gagliardetto e la divisa. Nel cimitero trovai molte tombe di famiglie col suo cognome ma non la sua. Da queste tombe affacciate sulla Val Divedro c’è un panorama grandioso e alcune, di defunti privilegiati, sono proprio a picco sulla valle.
I due della BMW mi seguirono:
– Viene voglia di morire per essere sepolti qui, – dissi loro.
Lui fece il gesto di toccar ferro, lei rise.
– Si fa per dire, – aggiunsi.
Uscii prima di loro ma al cancelletto tornai indietro a raccomandargli di chiuderlo bene, mica che entrasse qualche animale a sporcare.

Sul confine

Autore: Alberto Paleari
Editore: MonteRosa Edizioni, 2021
Pagine: 274
Prezzo di copertina: € 18,50

MonteRosa Edizioni

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