[Mas di Sedico, 29 ottobre 2018]
Eravamo al riparo, nella nostra casa. Fuori infuriava la bufera, e io stavo realizzando che le diavolerie della tecnologia sarebbero potute tornare utili nei lunghi pomeriggi invernali: le bambine si stavano scatenando con la baby dance mentre preparavo la cena, per una volta senza nessuno aggrappato alle gambe. Fabio era in cantina ad allenarsi e, nonostante avessimo passato le ultime ore a controllare i bollettini meteo, non ci rendevamo davvero conto di ciò che stava accadendo. Ormai quasi avvezzi ad eventi climatici eccezionali, non eravamo particolarmente in apprensione: nessuno poteva immaginarsi una cosa del genere. Eravamo pronti a un’alluvione, ma non alla violenza del vento – che qui da noi, nel nostro paesino, tutto sommato non era stato più forte di altre volte -, né tanto meno ai danni che avrebbe provocato e sarebbero andati a sommarsi a quelli causati dal diluvio che si rovesciava su di noi ormai da giorni. All’improvviso saltò la corrente, saltò internet, saltarono le connessioni dei cellulari.
Eravamo al buio e le piccole si erano un po’ spaventate, prima che arrivasse la magia delle candele. Adoro le candele, anche se da quando ci sono le bimbe le accendo di rado. Quella sera le loro fiammelle danzavano sulle pareti e sembravano innalzarsi nelle preghiere che la mia nonna recitava quando, durante i temporali, arrivava la grandine. Funzionava così: appena sentiva picchiettare al suolo, la nonna correva a prendere una candela benedetta e un rametto di ulivo e pregava il buon Dio perché risparmiasse il raccolto. Io ricordo bene come era il mondo prima degli smartphone, dei mille giga al minuto, del sempre e ovunque connessi. Che cosa stavano facendo i giovani in quel momento? Come si sentivano, se anche noi eravamo smarriti?
I colpi sordi delle folate ci facevano guardare negli occhi. Mentre le montagne venivano denudate dei loro alberi secolari, noi ci spogliavamo di millenni di progresso per ritrovarci stretti nelle nostre grotte, con le fiaccole accese a rischiarare la paura ancestrale che bussava alla porta. Non vedevo l’ora di mettere le bimbe a dormire per cercare di capire, per fermarmi a pensare, per parlare con Fabio, senza il timore di far trapelare l’angoscia e l’insicurezza che tentavamo di nascondere.
Il vento cessò di soffiare all’improvviso e una strana quiete pervase il paese, le valli.
Le bambine si addormentarono, noi non potevamo sapere che cosa fosse successo, e ci coricammo (la giornata delle mamme e dei papà non concede pause, e l’indomani, se non la notte stessa, dovevamo essere pronti). Mentre stavamo distesi sul letto con gli occhi sbarrati, dalla strada cominciò a salire un vociare sempre più concitato e ci affacciammo alla finestra: i vicini avevano iniziato a spostare le auto, per portarle in altura, al sicuro, qualcuno creava dei cordoni di pellet e altro materiale di fortuna in cima alle rampe dei garages. Scese anche Fabio, per portare almeno una delle due macchine dai suoi genitori, in collina.
Uscii sul balcone e vidi che all’altezza del ponte l’acqua aveva iniziato a scorrere lenta lungo la statale, tirandosi appresso tronchi e ramaglie: il Cordevole stava esondando.
Eravamo sole, i telefoni non prendevano e Fabio non tornava – al suo rientro mi avrebbe raccontato che era andato ad aiutare dei volontari ad aprire i tombini per liberarli dal materiale e permettere così all’acqua di defluire -. Mi sedetti in cucina e iniziai a scrivere per ingannare la paura, per ricordare, un giorno, ciò che comunque non dimenticheremo mai. Ero preoccupata per mio marito, per i nostri genitori, per gli amici che abitavano a ridosso del torrente, appena dopo il ponte. Abituati come siamo ad essere sempre raggiungibili era davvero difficile non poter comunicare. La penna correva al lume di candela, quando all’improvviso ci fu un fragore, un rumore di vetri rotti e macerie, seguito dalle urla di una donna. Credo di averla vista, doveva essere Gloria, sorretta dal suo compagno e dagli uomini della Protezione Civile che cercavano di allontanarla dal luogo del crollo, fuori dalla mia visuale. Solo più tardi avrei saputo che era franata la porzione di edificio attaccata alla sua casa: i vecchi uffici della storica impresa Roni, andati giù nel giro di qualche secondo, e dispersi nei vortici della piena. Iniziai a tremare, avrei voluto scendere con Fabio, essere con lui, ma non potevo. L’acqua, dopo che si era fatta spazio, iniziò a ritirarsi. Poi lo vidi, sul marciapiede adiacente all’appartamento di un nostro caro amico: erano insieme, erano salvi.