testo e foto di Vincenzo Agostini / Belluno
Di solito, quando si sta attorno al fuoco, si hanno sempre tante cose da dire ma non si sa quasi mai quale scegliere e così io, dopo averci pensato un poco su, la notte di capodanno del 2013 in una vecchia baita, dentro il fuoco e fuori la neve, sospirando avevo scelto che mi sarebbe piaciuto andare al mare in Grecia, sulla Penisola Calcidica, di fronte al Monte Athos.
Il fuoco era di un vecchio larice, la neve cadeva come grandi violaciocche bianche. Francesco, che allora aveva dodici anni, appassionato di mitologia per via dei supplementi che ogni settimana uscivano con il Corriere della Sera – i Mitico, a tema le gesta degli dei e degli eroi dell’Antica Grecia sui quali brillava una miriade di spade, di elmi e di schinieri e che Francesco collezionava in bella mostra sul suo comodino – allora Francesco, anche lui attorno al fuoco e fuori la neve, aveva risposto che se mare della Grecia doveva essere, che allora bisognava andare sull’Olimpo.
Qualche mese dopo, prossimi al Ferragosto, assieme all’ombrellone e alle mascherine, nel portabagagli della macchina infilammo tre zaini e tre paia di scarponi con le vibram e salutammo Venezia sventolando dalla nave tre lindi fazzoletti bianchi. Dopo lo sbarco a Igoumenitsa, dopo l’attraversamento dell’Epiro e della Macedonia meridionale fra campiture di cereali, di pastori e un’enorme centrale elettrica a carbone, lungo la via Ignazia che non era più la strada che percorrevano gli antichi per andare a Roma, e i Romani per conquistare l’Oriente, ma un’autostrada di centinaia di chilometri, di semafori e di gallerie costruite grazie ai fondi dell’Unione Europea, sul far della sera arrivammo a Litochoro, alle falde dell’Olimpo, un paesone di alcune migliaia di abitanti con le case degradanti nel verde e nel mare.
Trovammo posto in un alberghetto arredato di molta plastica, con un enorme stanzone per le colazioni, gestito da una coppia di macedoni i quali, prima dei documenti, ci chiesero se davvero volevamo andare sull’Olimpo. Noi rispondemmo di sì ed essi, accennando qualcosa di molto simile a una benedizione, ci dissero che allora eravamo proprio bravi, che sicuramente sarebbe stata una bella soddisfazione. La sera cenammo all’aperto con del moussakà, acqua minerale e una fresca birra Mythos, poi andammo a dormire mentre l’orizzonte sfumava verso Tessalonica, l’Anabasi e l’istmo che Serse fece scavare per confondere con la sua flotta i Greci.
Il giorno dopo partimmo di buon mattino per Prionia, dove si sarebbe potuti arrivare anche con la macchina ma dove noi andammo a piedi in cinque ore di abeti, di faggi e della gorgogliante acqua delle cascate dell’Enipea. Di qui, dopo una sosta in una taverna, il tempo di osservare che la pianura verso la Penisola Calcidica era attraversata dalla nebbia sollevata dal Meltemi, ripartimmo con gioia, avendo riempito le nostre borracce da un ruscello. All’imbrunire, dopo tre ore di un sentiero sul quale cadevano le verzure di enormi faggi secolari, dove ogni tanto dovevamo abbarbicarci sui sassi per far posto alle carovaniere dei muli che portavano i rifornimenti, arrivammo ai 2040 metri del Rifugio Spilios Agapitos, che sulla nostra mappa era segnato soltanto come Rifugio A perché nessuno, così aveva detto il macedone dell’alberghetto, dovrebbe vantare qualcosa di proprio sull’Olimpo. Attorno al rifugio era una brezza leggera e un infoscare del bosco che sapeva di felicità.
Preso possesso dei letti dentro una camerata lastricata di porfido, appoggiati gli zaini per terra, ci sedemmo all’aperto attorno a un tavolo di legno dove mangiammo una pastasciutta e bevemmo ancora una birra Mythos. Gli altri commensali erano un paio di famigliole tedesche, qualche inglese, molti giapponesi, comunque asiatici, e un americano che ci teneva a far sapere a tutti che veniva da San Francisco. Sopra di noi, a 2917 metri di altezza, era la vetta del Mytikas, la cima più alta dell’Olimpo, un enorme polittico di pietrame che aveva la forma di un trono ma senza che ci si potessero appoggiare le braccia. Sotto di noi erano boschitudini verdi e, in lontananza, la bruma antica del mar Egeo.
Dentro di noi, dopo che le stelle ebbero iniziato a brillare nello stesso cielo osservato secoli prima da Aristotele ed Euripide, da Pericle e Platone, e di lassù anche da Zeus, aveva preso posto qualcosa di simile a un timore reverenziale, come se noi stessimo alle falde non di una montagna ma di una idea antica e allo stesso tempo profonda – di quella profondità che soltanto le somme altitudini possono regalare – un’idea reale e niente affatto mitologica dalla quale il giorno successivo, forse, dopo averla frequentata come si usa fare con i santuari che custodiscono qualcosa che non importa se è davvero sacro perché più conta la sacralità del visitatore, nel nostro caso dello scalatore, saremmo tornati molto cambiati.
E quando il gestore del rifugio ci disse che era ora di andare a dormire, noi così facemmo, in uno stanzone freddo e buio, quasi tetro. Distesi vicino a noi erano i tedeschi, gli inglesi, gli asiatici e l’americano. A un tratto Francesco, seduto sul letto, disse che aveva visto un bagliore sull’Olimpo, che di sicuro era un lampo e ci chiese se lo avessimo visto anche noi. Fabiola e io, ovviamente, rispondemmo di sì.
Il giorno dopo era un sereno attraversato da lunghi cirri che venivano dalla Tessaglia. Verso Tessalonica il Meltemi aveva smesso di soffiare, tanto che sopra il limpido del mare si potevano immaginare Troia, l’Iliade e buona parte dell’Odissea. Il sentiero lo prendemmo di buon mattino, in compagnia di un’umanità che mi pareva avesse deciso di convergere lì da tutto il mondo: come a Ferragosto si ricorda l’Assunzione in cielo, così anche noi, ognuno con la propria storia e memoria, Francesco con i suoi allegati del Corriere della Sera, stavamo assurgendo sull’Olimpo per qualcosa che assomigliava molto al sacro, come a una messa che di lì a poco si sarebbe celebrata, che sarebbe stato un peccato mortale perdere.
Subito gli abeti cessarono, subito i faggi non ci furono più. Davanti a noi era un’erta di ottocento metri di dislivello e di tre chilometri di distanza, una montagna così brulla che sarebbe stato lecito domandarsi cosa ci stavano a fare gli dei e noi lassù, che se non conoscevano un luogo migliore per abitarci, agli dei lo avremmo sicuramente indicato noi.
Il cielo si fece più terso, il sudore della fronte più copioso, la sete in gola più arsa. Finalmente in cima, osservammo l’orizzonte come se ognuno di noi, così come i tedeschi, gli inglesi, gli asiatici e pure l’americano di San Francisco che adesso se ne stava in silenzio mangiando la sua frutta secca, si fosse ritrovato ad assistere non a una messa ma ad un universo suo molto proprio, misterioso come la montagna della quale avevamo letto sull’Iliade e sull’Odissea, o a quella comunque simile, o analoga, una montagna irrealizzabile della quale ci avevano anche molto interrogati a scuola e che io portavo dentro di me, a modo mio, da quando avevo visitato il Museo Granet, ad Aix-en-Provence, all’entrata del quale troneggia l’enorme quadro di Ingres intitolato “Giove e Teti”, con un Giove ieratico seduto sull’Olimpo e con una Teti svestita che con una mano gli tocca un ginocchio e con l’altra il mento, implorandolo di risolvere il conflitto fra il figlio Achille e Agamennone – Agamennone che bramava una schiava e Achille che gliela negava – dove Giunone osserva la scena dall’alto; tanto che ad Aix-en-Provence era successo che il cielo di quel quadro mi aveva colpito con i suoi nembi e la sua azzurrità, e se quello era l’Olimpo di Ingres, avevo pensato, il mio gli assomigliava, ché anche per me l’Olimpo era una montagna astratta dove si poteva immaginare una moltitudine di divinità intente a scorrazzare fra le nuvole e l’azzurro, ché anch’io non ero mai stato capace di dare all’Olimpo una forma, meno che mai un costrutto – del resto, come si fa a immaginare la casa della divinità? – ed ecco che il giorno di ferragosto del 2013 una montagna di nome Olimpo stava sotto i nostri piedi, nostro possedimento esteriore e interiore, arida e brulla come ce ne sono tante a questo mondo, dentro un’azzurrità identica a quella di Ingres mentre i nembi no, quelli erano stati sostituiti dai cirri; una montagna che ci stava dando l’illusione, un vero e proprio godimento, che potessimo anche noi troneggiare per una volta al centro di qualcosa che assomigliava molto a una primogenitura, a una specie di centro della terra, a un cominciamento innominabile come soltanto le cose vere incominciano senza un nome, qualcosa di così senza tempo che a un certo punto a noi tutti – americani, tedeschi, asiatici, inglesi e italiani – parve di essere stati condotti lì, sull’Olimpo, da qualcuno che parlava la stessa nostra lingua, che aveva addirittura lo stesso nostro dio, tanto che, dopo esserci rifocillati, abbiamo cominciato a discorrere a bassa voce come si usa fare in chiesa quando il sacerdote sta celebrando, perché non volevamo offendere quel qualcosa di sacro e di primigenio che avevamo scalato dentro di noi, nel nostro cuore, che avevamo raggiunto sulla vetta dell’Olimpo e che grazie a Francesco, avevamo finalmente potuto toccare.
Poi, quando tutto fu terminato e il sole iniziò a calare nel grande vaso del Peloponneso, scrivemmo Olimpo con le mani, due lettere per ciascuno, e ci facemmo una foto con l’autoscatto. Osservammo il Parnaso, il Taigeto, l’Elicona, i dintorni del Pelio, il cielo sopra Volos e il porto dal quale salparono gli Argonauti. Lungo la discesa incontrammo tre camosci, una stella alpina, ancora abeti, faggete, i muli delle vettovaglie e, quasi a Prionia, il fragore delle cascate dell’Enipea.
Sulla via del ritorno, io davanti e lui dietro, Francesco mi disse: papà, siamo stati proprio bravi, noi siamo riusciti dove neanche Bellerofonte.
Infine, ci togliemmo gli scarponi, risalimmo in macchina e prendemmo la strada per Tessalonica, con nostalgia verso la Penisola Calcidica.