A VOLTE SOGNO ROCCIA COMPATTA E RUGOSA
Fin dai primi metri la roccia è quella tipica del Brenta: grigia e compatta che garantisce soddisfazione; inoltre l’inizio è abbastanza facile.
Che pacchia seguire ora una fessura, ora un diedro, ora trovarsi in aperta parete, ora su un tettuccio ben manigliato! E poi all’improvviso Marco urla che c’è il sole: il sole mattutino quando si è in parete è la cosa più bella che ci sia.
Infine arriviamo sulla grande cengia sopra la quale iniziano le vere difficoltà.
In cengia ci riposiamo, mangiucchiamo qualcosa e osserviamo i turisti grandi come formiche sui sentierini in fondovalle.
«Ecco quelli che ci respirano l’aria» sentenzia Marco con tono cattedratico, mentre Nazzareno, autentico spirito di arrampicatore sportivo, dice che non cadrà più nei nostri tranelli ed in effetti gli era stata nascosta la nostra passione per le vie lunghe e con ritorni impegnativi.
«E non dimenticatevi che è la mia prima via in Dolomite» implora Nazzareno, «ed io sono stato solo sulle Torri del Vaiolet in mezzo a decine di cordate» incalza Guido mentre Marco ed io sogghignamo.
Ora la parete diventa perfettamente verticale e si avanza un po’ più lentamente ma sempre in allegria. Una bella lunghezza, la successiva con un tetto fessurato e poi infine un pilastrone liscio. Sempre su roccia ottima e girando verso sinistra arriviamo ad una sosta espostissima proprio a destra di un grande tetto. Sopra la testa una fila di chiodi ci invita, stoltamente, a salire e infine dopo dieci metri trovo un bel chiodo ad anello con un cordino nuovo.
Rapida doppia e sono di nuovo alla base.
Dopo questo intermezzo si traversa a sinistra fino al bordo del tetto e poi si prosegue pressochè diritti per parecchie lunghezze; ora è un diedro chiuso da un tetto, poi una fessura e poi una cengia dove riposarsi e potersi perfino sedere: troppo lusso!
Dopo aver avuto l’infausta idea di portare i nostri due amici in gita turistica sul Crozzon, Marco ed io ci carichiamo gli zaini mentre loro, da capocordata, cercano la via.
In realtà faccio solo una lunghezza di corda con lo zaino di Guido ed arrivo, stremato, in sosta più morto che vivo.
Ma che diavolo ci hanno messo dentro?
Con grande gioia troviamo cibo e leccornie di ogni genere ed in un attimo diamo fondo ai viveri e ne lasciamo persino in cengia.
Di tutti i libri di montagna letti, i più impressionanti erano quelli dove i protagonisti esaurivano i viveri e dovevano lottare con la fame. Noi, fortemente presi da questi pensieri eravamo soliti portarci in parete troppo cibo!
Al tiro seguente, in aperta parete, lo zaino è decisamente più leggero e questo è l’importante.
Poi Marco urla che la parete si spiana: il tratto centrale è finito, ma la cima è ancora lontana.
Con tre o quattro tiri veramente facili arriviamo alla grande cengia superiore e siamo sotto l’ultima fascia nera strapiombante: ma si tratta di soli ottanta metri.
Superata la fascia strapiombante non mi sarebbe proprio dispiaciuto essere in cima e invece ci aspettano altri duecento metri di pericolosissimi sfasciumi.
Avvolti dalle nubi, alla ricerca di una cima ma soprattutto di un sentierino di ritorno.
Dopo un po’ mi accorgo di avere pure sbagliato strada: pensavo di essere arrivato, ma un baratro è davanti a me.
Poi qualcuno urla che è arrivato. Sei sicuro?
Si, non c’è più nulla da salire.
Che strano effetto ritornare a camminare e potersi muovere dove si vuole e non essere legati a quei cinquanta metri di corda.
Sulla cima il tempo di guardarsi attorno e poi via. Nazzareno suggerisce di fermarci a dormire nel bivacco, ipotesi che ci fa inorridire vista la voglia di effettuare un’altra via il giorno successivo.
Una doppia, una discesa in arrampicata fino ad una forcelletta, un traverso su cengia esposta e con neve e poi la risalita al Crozzon Centrale.
Attraversata la cima, un’altra discesa folle ad una forcelletta, risalita di un canalino ghiacciato, passaggi su roccia marcia ed infine si arriva alla terza ed ultima cima del Crozzon.
Cima Tosa, che pure dobbiamo scavalcare è ancora lontana e ci separa una serie di guglie, gugliette, gendarmi e canalini tutti da superare con piede fermo.
Dopo due ore di piacevole arrampicata su rocce friabili e instabili, con i nervi a fior di pelle monto sulla cresta ghiacciata della Tosa.
«Occhio, Massimo, a non scivolare nel Canalone Neri!» dico fra me e me.
La normale del Crozzon non difficile, ma da noi è stata tranquillamente trascurata, in effetti necessita di parecchie attenzioni.
In cima alla Tosa ci rilassiamo guardando il tramonto del sole e tutto acquista un fascino particolare. E poi giù di corsa: roccette, doppia nel camino-canale e poi il buio è totale. Camminiamo in fondovalle aiutandoci con la luna, stupenda, che illumina le pareti circostanti. Ormai i discorsi sono decisamente sconclusionati.
Al Pedrotti una birra gigante e poi, una volta guadagnata la forcella, di corsa nei nevai verso il Brentei.
Alla fine arriviamo alla tendina diciassette ore dopo averla lasciata. Nel silenzio della notte, seduto su un masso, guardo distrattamente la sagoma del Crozzon.
Noi l’abbiamo salito con i nostri vestiti scanzonati e con le nostre allegre risate.
Il desiderio trasgressivo di arrampicare con vestiti stracciati è dimostrare che conta l’uomo e non l’abbigliamento, ma ciò si mescola anche con la volontà di rompere decisamente con il tradizionale abbigliamento, un pò stereotipato, di montagna.
Che storia! Avvincente e scanzonatoria!
Elena
Belle le storie di gioventù dove la follia è l’altra faccia della passione. Ricordare fa bene al cuore