Toni è un cacciatore.
Ha una moglie, una figlia, un cane e un tabià ristrutturato in una radura frequentata da caprioli e pochi cervi. Passano di lì anche la volpe, il tasso e la martora. Fanno parte della famiglia, non li mirerà mai.
Io sono solo. Nella mia strada, al centro del paese, passa la martora che si mangia i cavi ecologici delle auto parcheggiate. A volte, Toni, lo incrocio al bar, altre volte in auto, non siamo ancora pronti per salutarci. Ci studiamo, forse, o forse non ci sono motivi per andare oltre un’occhiata.
Toni parte presto, la domenica, quando è ancora buio. Sa dove andare, ha uno scopo, una ragione pressante per salire solo col cane, fuori dal sentiero. Ascolta tutto ciò che si muove: i rumori, i canti, capisce cosa si dicono i codirossi, cosa chiede il becco storto. Ascolta il picchio.
Io parto quando mi sveglio e tutto si decide la sera precedente al bar del centro. Decido soprattutto dopo aver visto le previsioni meteo. Ho comprato libri, dvd specializzati, ho frequentato corsi notturni e visitato musei interattivi. Non so ancora distinguere un merlo da una cincia, un passero da un fringuello. Non so se spreco tempo o se ho una minima possibilità di successo. Mi accontenterei di poco, mi basterebbe, passeggiando con un’amica poter dire: «Ascolta…, senti questo canto, sai cos’è?». Lei con un sorriso mi direbbe dolcemente: «No, dimmelo tu…» ed io con tutta sicurezza potrei raccontare storie, leggende, origine del nome, etologia ed altro ancora. Ma non è così, accidenti.
Toni è nato in paese, la madre non voleva correre rischi andando in ospedale. Partecipi, alla nascita, tutti i vicini di casa. Io sono stato partorito in clinica. Periferia di una qualsiasi anonima città il cui nome non conta, un palazzone tra parcheggi e affollate fermate di mezzi pubblici. Nessuno si è accorto di nulla. Routine.
Parto solo come sempre, zaino, merenda e cartina Tabacco 016.
Parcheggio l’auto al Cercenà. E’ presto, non c’è ancora luce, ieri sera non c’era nessuno al bar, è fine mese e le paghe non sono ancora entrate. Sara, Emilio e Giuseppe dormono ancora, le asine e le capre no, stanno già cercando l’erba migliore.
Salgo veloce verso Dàlego, le brusade, la panoramica, sosta a Forcella dell’Elma. Passa un camoscio di corsa, svolazzano due femmine di forcello, arrivo all’orto del Montanel. Di solito salgo a dare un’occhiata agli Spalti da Forcella Lisetta. Oggi no, parto diritto per il Cadin di Montanel, andrò su una cima forse, vedremo.
Il catino si sta schiarendo, il silenzio è uniforme, inviolabile. Al bivio decido. Svolto a destra verso la cengia che attraversa la parete, so che si passa me lo ha confermato un vecchio del paese. La traversata termina al sole. Un vecchio ometto segnala il passaggio. Guardo a sinistra, parete verticale, guardo a destra, tracce di passaggio. Bene una cima me la faccio. Una lunga costiera promette panorami invidiabili. Vado veloce mi basta un buon panorama, per la contemplazione tornerò, adesso voglio scendere al rifugio Padova.
Dalla ritrovata forcella, tra i due versanti scendo prestando attenzione a quella valle ampia e solare chiamata la Caccia grande ed è qui che si capisce il significato del nome. Da tutte le direzioni giungono canali ghiaiosi, corridoi tra i baranci, cenge erbose: è la grande casa del camoscio, ricca e solare. Da una cornice scende guardingo un camoscio. Corna piccole, questa la so, è una femmina. Smuove pochi sassi è prudente. Mi immobilizzo. Ecco dietro compare veloce, mirando alla mamma il piccolo. Mi siedo, vorrei sprofondare tra le pietre, nascondermi, godermi la visione, accarezzarli quasi.