Qualche settimana prima ci eravamo avventurati con molto rispetto e precauzioni su una via alpina di 600 metri con un approccio di 900 metri di dislivello, che si era rivelata un successo. Contenti e soddisfatti ci apprestiamo a cercare un nuovo progetto che ad un occhio inesperto come il nostro sembra addirittura più facile del nostro debutto alpinistico. Fin dall’inizio della giornata riceviamo dei segni dal “destino”?, “fato”?, per chi vuol credere in suddette istituzioni, ma che decidiamo di ignorare. Difficile col senno di poi capire quanto questa scelta fosse cosciente e guidata dalla voglia del successo, oppure da una mancanza di sensibilità. L’unica verità che resta è che se la prossima volta, dopo un’ora di approccio, ci renderemo conto di aver dimenticato i caschi in macchina, anziché correre a prenderli ci faremo una passeggiata e gireremo i tacchi. Ma arrivati a quello che sembrava l’attacco della via, a mezzogiorno, decidiamo di indossare imbraghi e fare i primi passi verso l’alto, ignari delle difficoltà alle quali andavamo incontro.
Non trovando un evidente punto di inizio ben marcato, decido di iniziare la salita verso la cresta ben evidente davanti a noi. In fin dei conti si tratta di un susseguirsi di secondi e terzi gradi alpini che potremmo probabilmente anche arrampicare in conserva.
«Conserva? Cos’è?» mi chiede Anne. Upsy forse avremmo dovuta esercitarla in condizioni più rilassate. Per coloro i quali non lo sapessero si tratta dell’arrampicata simultanea di entrambi i membri della cordata su protezioni mobili, posizionate dal primo e recuperate dal secondo, attraverso le quali scorre la corda. Ci rendiamo conto velocemente che non è un’alternativa valida per il livello della nostra cordata. Mi ritrovo quindi ad organizzare soste ma soprattutto a non rendermi conto che il tempo sta passando velocemente e che probabilmente l’unico modo per scendere è arrivare fino in cima.
Nonostante tutto procediamo abbastanza tranquilli fino a quello che sembra essere il passo chiave, una placca appoggiata di quarto. Nell’arrampicata colui che sale da primo e porta su la corda è di solito il più esposto e prende più rischi, purtroppo però in montagna ci sono delle eccezioni e senza rendercene conto eravamo proprio di fronte ad una di quelle. Il passo chiave era ben protetto dal basso con un chiodo, e seguito da venti metri di corda libera sulla cresta. Arrivo in sosta ed Anne inizia ad arrampicare fino a quando si rende conto che quel chiodo che avevo utilizzato prima del passaggio duro era l’unico punto che la proteggeva da un potenziale pendolo di 20 metri contro la parete sottostante della cresta. Vi potrete immaginare il seguito.
«Tirati sulla corda e quando sei sopra il chiodo togli il rinvio», grido.
«Non ci riesco ho troppa paura!», mi risponde.
«Ok aspetta che vengo a prenderti».
«No, non voglio che vieni».
Scambiando grida di angoscia senza saper veramente cosa poter fare.
«Basta sto scendendo» grido io nel panico della situazione andando incontro ad Anne in lacrime che si preoccupa ancora di più vedendomi lasciare la sosta e scendere sulla corda (dopo aver messo la sua corda in sicurezza ovviamente).
Lei grida «No, no, resta lì», ma il panico e la rabbia degli ultimi momenti scompaiono improvvisamente non appena le nostre mani si toccano. La tiro su in sicurezza sulla cresta togliendo quel rinvio incriminato. Ci abbracciamo, lei piange, i singhiozzi si calmano. Io tiro un respiro di sollievo, come faremo a finire questa via? Non siamo nemmeno a metà. Per fortuna Anne non se ne rende conto. Devo solo tenere duro, mantenere una buona velocità di crociera e portarla in salvo il più velocemente possibile ma soprattutto in sicurezza. La difficolta più grossa sembrava essere superata e dopo aver asciugato le lacrime ed esserci ricordati della fortuna che abbiamo ad essere insieme sani ma non ancora del tutto salvi, procediamo con l’arrampicata tortuosa su questa cresta che da giù sembrava ben più diretta e liscia.