testo e foto di Angelo Ramaglia / Castellanza (VA)
«Mi piace la tua visione del mondo», disse il capitano al quartier mastro.
«Non ho nessuna visione del mondo», rispose dubbioso il quartier mastro.
«Appunto», chiuse Achab.
Achab era il capitano, proprio lui. Il quartier mastro invece era un tale di nome Ail.
Entrambi odiavano le barche.
Achab, per quanto possa sembrare strano, e nonostante le dicerie oceaniche, era un grande appassionato di montagna, così come Ail.
A proposito di Achab ricordo che un tale di nome Melville, che conobbi durante una ascensione al Monte Inesistente, giurava e spergiurava che se ne andasse in giro su una gamba sola e che l’altra fosse di legno. Diceva che era il ricordo lasciatogli da una montagna bianca di nome Moby.
Mai conosciuta una montagna dal nome tanto strano, e si sa, se io, tu o noi non abbiamo mai conosciuto una storia significa semplicemente che quella storia non esiste. Quel Melville era un gran burlone dopotutto, facile che abbia tentato di ingannarci.
La nave era stata armata da una famiglia di avari, taccagni, miserrimi figuri di cui non daremo nessun riferimento perché non riteniamo opportuno farlo e perché non ha alcuna importanza al fine di questa veridica storia.
Gli avari armatori costruirono la barca come fosse una specie di ruota per criceti e in cambio di un po’ di cibo e promesse sotto forma di miraggi di denaro la facevano girare grazie all’incessante e muto lavorio dei propri schiavi stipendiati. Lo scopo? Il solito. Il mero, patetico, arido guadagno.
Era la vita dei mercanti insomma. Mercanti che però, ad insaputa dei propri datori di lavoro, avevano tutt’altro animo. Avevano animo da viaggiatori dell’ignoto, persone che andavano oltre la ruota, e che cercavano altro. Tutt’altro rispetto al vile denaro.
Achab aveva infatti imbarcato un equipaggio per andare alla ricerca di un nome da dare al suo vascello. Quello stesso vascello di cui era capitano e che avrebbe sottratto ai proprietari come un moderno pirata per usarlo come dimora e mezzo per attraversare mari sconosciuti o meno, al fine di trovare montagne ignote o del tutto note. Nulla di misterioso dunque, o quasi.
Achab muoveva il suo naviglio dicendo che da un porto all’altro c’è la distanza di un pensiero, se lo si vuole raggiungere si riesce, se non lo si vuole davvero rimane il dubbio di aver perso la rotta andando alla deriva fino alla disperazione, o alla fortuna. E’ importante che prima di lasciare un porto lo si dimentichi, in modo che i prossimi lo trovino sgombro delle idee di altri.
Achab era un mentecatto insomma, ma era un buon mentecatto, e inoltre era certo che un nome avrebbe fatto bene al vascello… pur non avendo nessuna idea del perché.
Diresse la rotta verso l’isola di Fiori. Là avrebbe trovato il nome che andava cercando.
L’isola dei Fiori era sprovvista di fiori, ma c’erano colline, boschi, montagnole di poca altezza ma di piacevole splendore.
Dall’alto delle loro vette era possibile scorgere tutti gli errori della propria vita e si aveva il potere di respirare la libertà di non essere schiavi di nessuno.
Certo, gli errori rimanevano errori, e circa la schiavitù ci si poteva solo chiedere quali fossero le armi per togliersela di dosso, ma non c’erano magie che correggessero i piedi messi in fallo nel corso della vita e nessun incantesimo avrebbe spezzato alcuna catena.
Dall’alto delle loro vette era possibile scorgere tutti gli errori della propria vita e si aveva il potere di respirare la libertà di non essere schiavi di nessuno.
La ricerca del nome del naviglio di Achab era il suo personale modo di smettere di essere schiavo della limitatezza di sé stesso.
Oltre ad Achab e ad Ail l’equipaggio era formato da un mucchio di altri fidati montanari poco avvezzi alla navigazione che avevano accettato l’invito di Achab per svariati motivi.
Qualcuno per uscire dall’ovvio; qualcuno per annoiarsi per sua scelta ma senza subirla; due fratelli scienziati si proponevano di scoprire qualcosa che valesse la pena scoprire e che ancora non era stata scoperta per semplice volontà del qualcosa da scoprire che, per qualche ragione, attendeva di essere scoperta da persone degne di fare la sua scoperta come erano per l’appunto loro due; altri si erano imbarcati per tentare di capire cosa diavolo volesse dire la frase espressa poco prima; alcuni erano nell’equipaggio solo perché non avevano di meglio da fare.
Ad Achab piaceva quella mancanza di visione del mondo di Ail e della sua ciurma. Era una mancanza di visione pura, vergine di influenze patetiche e avide. Identica a quella degli abitanti dell’isola su cui erano diretti, aperta alle sorprese, desiderosa di sperimentare senza l’odiosa sicumera di chi vanta di sapere tutto, di aver provato tutto, privo di fantasia, sprovvisto di immaginazione.
Già, perché Achab c’era già stato in quel luogo e parlando con gli indigeni aveva scoperto che c’era molto oltre quello che si vedeva e poco alla volta aveva preso ad attraversarne i confini, il cuore, le viscere.
Una volta che si era smarrito tra i boschi, gli abitanti dell’isola dei Fiori, dopo averlo soccorso e rifocillato, gli avevano insegnato a non prendersi mai troppo sul serio. Gli avevano cantato la canzone del piedistallo, faceva più o meno così:
“È l’arte di fare tutto cercando di stare sempre giù dal piedistallo, che sul piedistallo c’è poco ossigeno e si rischia di sragionare. Dal piedistallo se si cade ci si rompe la testa. Sotto al piedistallo c’è la verità del tuo essere. Sopra al piedistallo ti ci devono mettere perché se ci vai da solo rischi solo di sfondarlo col peso del tuo vuoto”.
Questo gli cantarono mentre lui, in preda alle convulsioni giurava di aver affrontato dei mostri di rara bellezza che volevano dissennarlo con delle carte di segni incomprensibili, nutrendolo di strani rettangoli di cibo compresso. In seguito si scoprì che i mostri altro non erano che una squadra femminile svedese di orienteering che si allenava ogni anno nell’isola e i rettangoli di cibo compresso erano barrette sportive energetiche.
«Andiamo in montagna per allontanarci da noi stessi, perché “sii te stesso” è il consiglio più abusato dalla televisione e ci siamo stancati di chi consiglia cosa fare».
Questo, invece, era l’insegnamento che Achab cercò invano di donare agli abitanti dell’isola.
Invano perché quelli non ci capirono nulla. Essi non avevano idea di cosa fosse la televisione. In quanto all’andare in montagna non aveva senso dato che in montagna loro non ci andavano, loro ci vivevano. E infine, circa l’allontanarsi da se stessi non ne vedevano il bisogno dato che insieme a loro stessi ci si trovavano benissimo.
Quando l’equipaggio sbarcò, gli indigeni li misero subito in guardia così proclamando:
«Siamo cercatori di vie alternative tra i boschi, sui sentieri dei cinghiali ghignanti, attraverso le radure dei torrenti inesistenti, per arrivare alla cima dove vanno tutti, ma solo quando non c’è nessuno. Una cima priva di record, sprovvista di orpelli, più bassa dei giganti bianchi attorno».
E così continuando:
«State accorti, voi umani di fuori, la natura dell’isola è piena di insidie. Troverete gli alberi dai rami che vi trattengono, i ghiacci dalle dita che vi attanagliano, i dirupi che invitano, i sassi che danzano sulle teste, la neve che si sdraia su di voi. Sono i richiami della montagna che si affeziona se gli siete piaciuti e che tenta di tenervi stretti a lei in eterno. In un modo un po’ discutibile, lo ammette anche lei stessa, ma così è. Non si discute con la montagna. Si tace e si accetta, oppure si va al mare… a scontrarsi con qualcosa di altrettanto testone».
Siamo cercatori di vie alternative tra i boschi, sui sentieri dei cinghiali ghignanti, attraverso le radure dei torrenti inesistenti, per arrivare alla cima dove vanno tutti, ma solo quando non c’è nessuno.
Volevo lasciare anche io il mio racconto senza fine, con una virgola abbandonata in fondo e infine sparire,
Achab prese ad amare quel posto, ci tornava appena poteva, ci si immergeva come un santo in cerca di una visione, di un assassino bisognoso di assoluzione, come un marinaio assetato di vette, come un capitano alla ricerca di un nome. Cercava un nome adatto al suo modo di vivere per poterlo donare alla sua odiata, amata nave.
Quando l’equipaggio di Achab iniziò il cammino verso l’imponderabile ricerca si chiese come fare a cercare un nome. Sia Achab che Ail vennero interpellati, ma entrambi alzarono le spalle e fecero segno di andare un po’ dove volevano, qualcosa avrebbero trovato, perché, così dissero: «i sogni più alti sono secchi profondi. Le ambizioni più eccelse sono grotte celate».
Naturalmente nessuno ci capì nulla e tutti partirono diretti verso una propria personale ricerca dicendosi l’un l’altro che se alla fine fossero incappati in un nome allora l’avrebbero portato al capitano, se invece, come sospettavano, fossero tornati a mani vuote, avrebbero comunque guadagnato una qualche gran bella avventura fra le braccia di quello strano luogo.
Il cuoco, un personaggio un po’ timido di nome Ismaele, prima di allontanarsi suggerì che avrebbero potuto chiamarla Pequod. Achab ci pensò su un po’. Alcuni membri dell’equipaggio si fermarono in attesa, Ail guardava nel nulla in attesa della risposta di Achab. Dopo qualche minuto Achab grugnì, si avvicinò ad Ismaele e gli disse che la sua idea non era male, ma che per quella barca quel nome non andava punto bene. Forse per un’altra, chi lo sapeva.
Ismaele non si offese e corse via con i compagni.
Achab, per conto suo, tornando a fianco di Ail e dimentico di quel che era appena successo, mi scorse e mi disse: «tu non essere precipitoso nel salire, lascia andare avanti chi corre, corri anche tu quando il cuore non ti dà del cretino, buttati in discesa, sospira e allarga le braccia, goditi il vento, e attento a non inciampare».
Con Achab, avevo già navigato e insieme avevamo salito qualche montagna. L’isola dei Fiori era un posto che conoscevo, conosco e che comunque ogni volta mi sorprende come un amico interessante da ascoltare nonostante si sappia già tutto di lui. Andavo anche io a cercare un nome per il mio capitano, certo, ma c’era un altro motivo per cui stavo lasciando l’equipaggio prendendo una via solitaria.
Sapevo che nell’isola si narrava di un libro leggendario che si diceva terminasse con una virgola. Molti sostengono non esista, alcuni ne deridono l’ardire, altri ne conoscono, o pensano di conoscerne il segreto.
Come voialtri saprete certamente, ché a voi non si può celare nulla, il libro esiste davvero, e quella virgola non è un errore tipografico. È solo che l’autore a quel tempo aveva altro da fare e finì per dimenticarsi del libro e della virgola con cui l’aveva lasciato. Si chiamava René quello strano scrittore e tutti gli abitanti dell’isola dei Fiori sostengono che lui si aggiri da quelle parti desideroso solo di rimanere solo.
Naturalmente non volevo stanarlo finendo per farmi odiare, anzi, ne rispettavo il desiderio e volevo imitarlo. Volevo lasciare anche io il mio racconto senza fine, con una virgola abbandonata in fondo e infine sparire,
Più o meno così.
E invece no, se una cosa del genere è già stata fatta non ha senso ripeterla. Si rischierebbe il ridicolo se già non lo si è toccato già solo pensandolo.
Questo racconto invece finisce in un altro modo.
Termina con Achab che chiama a sé Ail. Con i due che a braccetto si allontanano un poco verso il mare confabulando qualcosa. Con Ail che gira il capo verso Achab e con fare sorpreso pare dirgli: «ma davvero?». Prosegue con i due che si dirigono verso il fianco della nave dove insieme si mettono a scrivere il nome che Achab aveva finalmente trovato per la sua barca.
Scopriremo da Achab che il nome gli era stato ispirato dall’equipaggio che si era sparpagliato per una ricerca di cui non aveva idea, in un luogo ad esso sconosciuto, privo di una visione precisa, ma con la gioia nel cuore e nelle gambe di poter finalmente andare, qualunque fosse la meta.
Achab chiese ad Ail: «e ora ce l’hai una visione del mondo?»
Ail rispose: «no, ma mi piace l’idea di tentare di trovarne una».
Achab e Ail sorridevano ammirando il loro lavoro mentre il sole lanciava gli ultimi dardi contro il vascello poco prima di prepararsi per la notte.
Il nome che i raggi del sole illuminavano sul fianco del vascello di Achab?
Il nome era questo: ∞
Complimenti .
Grazie Marco.
Che incredibile racconto, per me che ho letto la balena cinque volte di cui due di seguito.
Addirittura cinque volte! Complimenti da Herman. E grazie a te per la lettura.
Complimenti per la storia. L’isola dei Fiori è un riferimento al Campo o sono fuori strada? Ti leggo sul Blog, e anche su Twitter. Sei una garanzia quando non trovo le parole.
ciao Riccardo. Innanzitutto grazie per la lettura e i complimenti. Troppo buono. L’isola è il Campo, certo, ma non dirlo in giro… schhh
Dall’alto delle loro vette era possibile scorgere tutti gli errori della propria vita e si aveva il potere di respirare la libertà di non essere schiavi di nessuno.
Certo, gli errori rimanevano errori, e circa la schiavitù ci si poteva solo chiedere quali fossero le armi per togliersela di dosso, ma non c’erano magie che correggessero i piedi messi in fallo nel corso della vita e nessun incantesimo avrebbe spezzato alcuna catena. – Questo passaggio mi è piaciuto molto-
Grazie Sandra.