Reportage

#56 NELL’ARIA

testo e foto di Eva Toschi

Il perfetto granito dello Scingino
28/12/2020
6 min
Il Bando del BC20

Nell'aria

di Eva Toschi

É una giornata molto diversa da quel 27 maggio di tre anni fa.

Il sentiero che percorriamo è lo stesso, ma sono diversi i colori, le impronte sulla terra. Sono diverse le motivazioni che ci spingono a mettere un piede davanti l’altro. Sinistro, destro, sinistro, destro. Sinistro. É diversa la prospettiva e la direzione: noi guardiamo indietro, tu correvi avanti. Ma fra tutte le cose che rendono oggi così diverso da ieri è che tu non ci sei. Non ci sei, eppure non ci troveremmo qui se non fosse per te, se tre anni fa non avessi percorso questo stesso sentiero veloce, con passo deciso, da solo.

Camminiamo instabili, ti cerchiamo in alto, e nel farlo ogni tanto inciampiamo sui nostri piedi. Ti sentiamo nell’aria, ma sei inafferrabile; abbiamo le unghie nella carne, i pugni rossi e chiusi. Se oggi sei aria ieri eri roccia: a forza di cercarti in un muro liscio di granito sei diventato solido, forte, presente. Sei diventato un cristallo, una venatura, un quarzo. Eri roccia, ma ti sentivi più leggero dell’aria. Raccoglievi i sassi e li mettevi nelle tasche per non volare via.

Come ogni giorno d’inizio estate, quel giorno era carico di promesse. Un’amicizia appena nata, una vita libera dalle convenzioni, un futuro verso l’alto. Ti ho sentito parcheggiare vicino al furgone in piena notte, e andartene via all’alba, prima di crollare di nuovo nel sonno. Allora non potevo, ma oggi riesco a immaginarti lavorare per tre giorni in negozio con in testa il chiodo fisso di voler tornare a scalare Delta Minox nel modo più intimo che conoscevi; da solo. Tenertelo per te, non parlarne a nessuno. Ti immagino preparare il materiale veloce ma meticolosamente e poi guidare nell’aria della sera, che man mano che salivi, diventava più fresca. Cantare Santana, per scacciare via i pensieri che provavano, senza riuscirci, a tenerti ancorato al suolo.

Ti infili nel sacco a pelo, pensi che è passato solo qualche minuto invece è già mattina, spegni la sveglia e rimani sdraiato con gli occhi aperti per un po’. Per il tempo necessario. Sei pronto? La via la conosci, e proprio perché la conosci sai che è dura, che lo è anche se si è legati in due. Ti prepari, accendi il motore, parcheggi ai Bagni. Una volta che hai infilato le chiavi della macchina nella tasca interna dello zaino e che ti sei messo in cammino, non hai più nessuna domanda da porti. Non ti volti indietro. Non sapresti nemmeno cosa guardare, dietro le tue spalle.

Ti cerchiamo, in un giorno d’autunno

Cammini concentrato, nella luce timida del mattino che fatica a farsi spazio tra gli alberi fitti del bosco. Il tempo vola se si pensa solo a mettere un piede davanti l’altro. Sinistro, destro, sinistro, destro.  In un attimo sei già all’attacco della via. Indossi l’imbrago, sistemi i friend e metti in ordine le ghiere, metti le scarpette a scaldare nel pile, chiudi la zip, e fili la corda nello zaino. Solo una volta terminato questo rituale alzi gli occhi verso l’alto. Guardi in faccia la tua scelta. Il primo tiro è un diedro inquietante. Sembra più difficile di quanto non sia in realtà. Non ti lasci impressionare, bevi un sorso di the e insieme a esso, inghiottisci ogni dubbio. Zucchero contro l’inquietudine. Fissi lo zaino al primo spit, a quindici metri da terra, sistemi il Matik e, finalmente, parti per il tuo viaggio. Eppure non è l’inizio: ti chiedi se ogni passo che hai compiuto in tutta la tua vita ti abbia portato qui. Adesso.

Camminiamo fra neve e falaschi e malgrado l’aria pungente d’autunno sentiamo caldo, e sudiamo. Gocce salate come memorie. Le offriamo come sacrificio agli dèi delle montagne. Due poiane danzano sincrone vicino alle pareti di roccia. Oggi non c’è nessuno che le prova a salire. Ci siamo solo noi, ancorati al terreno, e tu, che non ci sei eppure sei ovunque. Tua madre indossa i tuoi vestiti, tuo padre – quando sorride – il tuo sguardo. Sei nelle lacrime non scese e sulla pelle che non si è bagnata. Sei dentro e intorno.

Il granito si fa spazio con irruenza nella carne delle tue mani. I muscoli si stanno scaldando e ti muovi preciso, controllato. Ti godi ogni movimento che ti porta verso l’alto, fino alla sosta del secondo tiro. Ti appendi, torni allo zaino, insegui i tuoi passi.

Prima di partire per il quarto tiro sai che da questo momento dovrai dare del tuo meglio per incastrarti con quelle placche intagliate dall’acqua e dal vento. Verticali, meravigliose, obbligate. Scali bene; la tua mente è solida e il corpo in forze. Ti senti sempre meglio, appiglio dopo appiglio.

La necessità di perfezione ti avvicina a se stessa, esigendo concentrazione e silenzio. Non esiste più niente oltre l’aria che ti circonda. Non esiste il mondo a valle e anche tu, man mano che sali, stai svanendo. Quel ragazzo che stava scalando da solo non ti ricordi più nemmeno chi sia. Ti volti indietro e guardi in sosta, aspettandoti di trovare qualcuno che ti stia facendo sicura, ma vedi solo la corda, scivolar via dal tuo zaino e correre fino alla tua vita.

Scendi, sali ancora. Sali ancora, scendi, sali. 9 tiri come fossero 18. Sei il capo-cordata che arrampica deciso, e sei il secondo che segue veloce. Il decimo tiro è delicato e precario. Un cavallo che prova a liberarsi del tuo peso di dosso. Hai traversato sotto un tetto, rimontato e rinviato e adesso ti ritrovi, 12 metri lontano dall’ultima protezione, a dover rimontare con un piede su uno knob un cristallo di granito sputato dalla parete; come una bolla di sapone rimasta sulle labbra. Il sapere cosa devi fare non lo rende più facile. Inizi il movimento concentrato, ti muovi con delicatezza, carichi a poco a poco il peso ma ad un certo punto senti che stai perdendo l’appoggio. Un nodo in gola. Non puoi cadere. La perfezione ti richiama a se stessa. Sospiri, rinvii. Continui la tua danza dal battito accelerato e dai movimenti controllati. Un lento, al ritmo di tamburi africani. Tumtum tumtum tumtum.

Matteo, durante la sua scalata solitaria

E poi, ancora, silenzio. Arrivi in sosta, conscio che il più è fatto e riparti sul penultimo tiro. Leggero. Arrivi all’inizio dell’ultima lunghezza e guardi l’ora chiedendoti se valga la pena scalare fra il muschio dell’ultimo diedro per arrivare “in vetta”. Decidi di si; che ne vale la pena. So che alcuni lo farebbero solo per certificare la salita e non farsi parlare alle spalle, ma tu scali con i piedi doloranti districandoti tra i licheni perché hai voglia di farlo. Non sei così sicuro di desiderare che questo viaggio finisca, vero?
Fermo all’ultima sosta ti rendi conto di non dover recuperare nessuno dall’alto. Non c’è nessuno a cui battere il pugnetto. Ma non sei solo. Ti volti e nell’aria c’è tutto. Il vento ti pizzica il viso e tu non sei più roccia, ma carne e sangue. E per questo hai voglia di tornare a valle. Verso la vita che ti aspetta.

Ci fermiamo a mangiare alla piana prima dell’ultima salita verso la Gianetti. C’è troppa neve per proseguire. Seduti, giochiamo a guardare attraverso i tuoi occhi. Scattiamo fotografie, come se volessimo mostrartele al nostro ritorno. Ci copriamo per non far asciugare il sudore; per non far volare via i ricordi.
Camminiamo veloci in discesa e con la scusa di non cadere non ci voltiamo mai indietro. Sei nell’aria, e non possiamo portarti più verso il basso.

Ti immagino correre sul sentiero ripido sapendo di aver realizzato un sogno o, più che altro, aver materializzato un pensiero. Aver danzato un inno alla vita su un palco vacuo circondato da un pubblico in ombra. Un lento, al ritmo di tamburi africani.
Pensavi di poterlo fare e lo hai fatto. Non tutti hanno il coraggio di dare lo stesso spazio alle possibilità. A volte, ci capita persino di provare, invano, a non considerarle. Così come non avremmo voluto considerare che tu te ne saresti potuto andare.

Rotoliamo giù dal sentiero consapevoli che non ci sarai tu ad aspettarci e non posso che immaginarti saltellare felice per quello che hai appena fatto e non, benché ti faccia piacere, perché Daniele ed io ti stiamo aspettando a casa con la cena pronta e le birre fredde sulla tavola. Avevi detto solo a Daniele e a tue madre cosa stavi facendo, perché volevi andare in alto per incontrare te stesso, ma sapevi che poi, a valle, c’erano tutti gli altri.
Non te ne scordavi mai, anche quando non ci pensavi. Ci portavi con te, anche quando arrampicavi da solo.
Non è poi così diverso da adesso, che non ci sei eppure sei ovunque.

Sei nelle parole, sei nei silenzi.
Sei il sole che scalda e la neve che si scioglie.
Sei l’acqua, che leviga la roccia.
Sei un quarzo, un cristallo. La carne che lo accoglie.
Sei il rapace, che danza nel vento e la roccia – immobile – che lo osserva.
Sei il vento che asciuga il sudore ma non i ricordi.
Sei nell’aria. Sei l’aria.

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foto:
1. Il perfetto granito dello Scingino.
2. Ti cerchiamo, in un giorno d’autunno.
3. Matteo, durante la sua scalata solitaria.

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Eva Toschi

Eva Toschi

Sono nata e cresciuta a Roma, dove ho studiato giurisprudenza per capire che sono una persona migliore quando non indosso un tailleur. Ho lasciato la grande città per lasciare che il vento mi scompigliasse i capelli sulle montagne delle Alpi e ho scoperto che la mia passione per l’outdoor e scrivere di questa, poteva diventare un lavoro.
Ora collaboro come scrittrice, editor e creatrice di contenuti per diverse riviste e aziende del settore outdoor, e quando ho finito di lavorare, apro la porta della baita in cui vivo per sciare, correre, scalare o per andare a fare altre gratificanti attività come tirare il bastone a Ombra, andare a funghi o entrambe le cose insieme.


Il mio blog | Ra.va.nà.re. è uno spazio dove vengono raccolte storie vere o immaginate. Racconti, sogni, sensazioni o punti di vista, dei quali i confini non sono ben tracciati e si confondono tra loro. Ra.va.nà.re. è disordine. Ra.va.nà.re. in montagna e nella vita.
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