Racconto

SULLA FOTOGRAFIA

"Mi sono accorto che in tutta la vita ho fatto sempre la stessa foto: una persona di spalle che guarda le montagne o un paesaggio. Io non sapevo perché facevo così, l’ho scoperto leggendo su Doppiozero un articolo di Ivan Levrini..."

testo e foto di Alberto Paleari  / Gignese (VB)

29/05/2022
7 min
Al ritorno, quasi alla fine del tratto più impervio della nostra ascensione, dove un campo di enormi blocchi di granito cominciava a cedere il posto a un pendio di detriti più piccoli, un sasso si girò sotto il mio piede, inciampai nell’altro e mi trovai catapultato in aria facendo una piroetta e atterrando molto più in basso in un profondo buco tra due massi.

Mentre volavo udii l’urlo di Liv, che si trovava dietro di me, perforare le rocce e il cielo:
«Nooo…»
Ero caduto sulla schiena e, malgrado avessi in spalla lo zaino, che in qualche modo avrebbe dovuto proteggermi, il dolore mi fece mancare il respiro. Dal bordo della fossa prima si affacciò Enea, poi Liv. Io non avevo né la forza né il coraggio di muovermi. Scesero e lei mi aiutò ad alzarmi mentre Enea cercava di leccarmi la faccia. Avevo un dolore terribile all’osso iliaco, nella cui zona si formò poi un ematoma che si sarebbe assorbito solo dopo sei mesi. Prima di cominciare la discesa, per proteggerla da eventuali colpi, avevo messo nello zaino la mia Olympus; dopo la caduta, appena capii che potevo camminare, aprii lo zaino e constatai che l’obiettivo, uno zoom ad alta focale, era stato strappato dal corpo macchina, da cui uscivano, come budella dalla pancia di un animale ferito a morte, fasci di finissimi fili elettrici. Evidentemente la reflex era stata schiacciata tra la roccia dove ero caduto e la mia schiena. Quello era stato l’ultimo atto del suo processo di distruzione, a cui seguì la decisione, dettata anche dalla mancanza di soldi, di non comprarne più un’altra.

“Sulla fotografia” è il titolo di un saggio di Susan Sontag del 1977, lo lessi l’anno dopo, quando uscì in Italia per i tipi dell’Einaudi. Non lo trovo più ma ricordo che sulla copertina bianca c’era un quadrato rosso e che il primo capitolo si chiamava “Nella grotta di Platone”. Non sto lì a menarvela con la filosofia platonica, anche perché non sono in grado di farlo, ma se una scrittrice come Susan Sontag comincia col mito della caverna si capisce subito dove andrà a parare: la fotografia non rappresenta la realtà, ne è solo un’immagine, una mera parvenza.

Ricordo che allora avevo una Comet Bencini da pochi soldi ereditata da mio padre, la stessa che, ho poi saputo quarant’anni dopo leggendo “Pianura” di Marco Belpoliti, aveva usato Luigi Ghirri per iniziare. Mentre scrivevo queste righe sono andato a rileggermi il capitolo di “Pianura” dedicato a Luigi Ghirri ma non ho trovato dove Belpoliti dice che Ghirri aveva una Comet Bencini, eppure non me lo sono inventato, sono sicuro di averlo letto da qualche parte. Comunque sia, la Comet Bencini è l’unica cosa che, come fotografo, ho in comune con Luigi Ghirri.

L’Olympus l’avevo comprata nel 2016 in un negozietto di Busto Arsizio, avevo preso anche due zoom: uno che andava dal grand’angolo a un piccolo tele, l’altro con focali più lunghe. Era una bella macchina, leggera, robusta, con un sacco di opzioni, a dire la verità un po’ troppo complicate da usare, ma anche in automatico faceva delle belle fotografie, cioè a fuoco e con la giusta esposizione.

La prima cosa che ho perso è stato il copri obiettivo dello zoom piccolo, quello con le focali più corte; non ne ho fatto un dramma, ho chiesto a Liv un suo calzino spaiato e a protezione dell’obiettivo ho continuato a usare quello, la seconda è stato il copri obiettivo dello zoom grande, stesso espediente ma con un mio calzino. Poi ho perso la batteria di ricambio: mi avevano detto che le batterie dell’Olympus duravano poco, per cui ne portavo sempre due. Però nelle gite di uno o due giorni non ho mai dovuto cambiarle mentre ero in giro: sono uno che di fotografie ne fa poche. Infatti la batteria l’ho persa quasi alla fine di una traversata di quindici giorni, era la prima volta che la cambiavo in tutta la traversata, credo che sia rimasta sul tavolo del Grassenbiwak, sotto il Titlis.

Non mi è mai venuto in mente di andare a comprare nuovi tappi per gli obiettivi o un’altra batteria, la macchina andava benissimo così. Più grave è stata la rottura dello zoom corto durante una traversata in Ossola, dalla Punta Valgrande al Pizzo Valgrande di Vallé, con discesa all’Alpe Veglia. Tornato a casa mi sono accorto che fino alla Punta Valgrande le foto erano venute bene, dopo erano molto sovraesposte, ma solo quelle fatte con lo zoom corto. Era l’ottobre del 2019, ho pensato a un guasto dell’attacco a baionetta, ci ho lavorato un po’ ma l’obiettivo ha continuato a non funzionare, poco male, mi sono detto, tanto funziona l’altro, di zoom.

Così da allora fino all’incidente definitivo, quello in cui dell’Olympus ne avevo fatto marmellata, avvenuto nel 2021, ho usato solo lo zoom lungo. All’inizio nell’inquadratura non ci stava mai dentro niente, poi mi sono abituato ad allontanarmi molto dal soggetto, il problema era fare foto in ambienti ristretti, ma anche lì non era grave, potevo sempre fotografare i particolari. Siccome sono un fotografo esigente, quando ero con qualcuno e volevo fotografarlo con uno sfondo di montagne, o comunque di un paesaggio, gli dicevo di allontanarsi. Di solito si mettevano tutti a una decina di metri, ma a quella distanza gli facevo un primo piano, allora gli dicevo:
«Più lontano, vai più lontano.»

Dapprima non capivano, ma poi, visto che vado in montagna sempre con le stesse persone, non c’era più bisogno di dirglielo. Naturalmente la profondità di campo andava a farsi benedire: a fuoco c’era sempre solo una cosa, o il primo piano o lo sfondo, ma anche Ghirri amava i paesaggi sfocati nella nebbia: alla fine anche la fotografia, come tutto, è solo questione di stile.

Per esempio mi sono accorto che in tutta la vita ho fatto sempre la stessa foto: una persona di spalle che guarda le montagne o un paesaggio. È successo persino che qualcuno di quelli che ho fotografato si sia arrabbiato perché non si capiva che era lui. Io non sapevo perché facevo così, l’ho scoperto leggendo su “Doppiozero” un articolo di Ivan Levrini, un professore di liceo che racconta la sua classe e la sua città nei giorni della pandemia. Tra le altre cose racconta il seguente episodio: un mattino, andando a scuola a piedi, il professore vede, seduto su una sedia in mezzo a un prato, uno che gli dà le spalle guardando qualcosa all’orizzonte, così si ferma e guarda anche lui nella stessa direzione, ma non vede niente di particolare. Però, mentre si è fermato in un bar a mangiare una fetta di erbazzone (il professore è di Reggio Emilia) si ricorda di una collega che ha tenuto una lezione sul sublime della prima generazione di romantici inglesi. Questa collega “parlando di Wordsworth ha chiarito che il sublime lampeggia nel poeta, cioè non appartiene all’oggettività del mondo esterno, non esiste in sé, ma ha bisogno dello spettatore perché sia colto”.

Il professore allora cita il famoso quadro di Caspar David Friedrich “Viandante sul mare di nebbia”, dove appunto il pittore ha dipinto un uomo di spalle che guarda picchi rocciosi affioranti dalla nebbia. Il fatto che il soggetto sia di spalle ci obbliga, dice più o meno il professore, a immedesimarci con lui e a cercare di capire perché e che cosa guarda. Succede così che chi guarda il quadro è come se entrasse nel quadro stesso, in un certo senso diventa colui che nel quadro guarda il paesaggio. Il piccolo uomo che nel quadro è raffigurato di fronte alla grandezza della natura, induce, in colui che guarda il quadro, una esasperazione del sentimento romantico del sublime che il pittore vuole esprimere. Al contrario, se nel quadro c’è una persona che ti guarda, essa sottrae con l’onnipotenza del suo sguardo l’attenzione dal paesaggio alle sue spalle, soffocando o inibendo la percezione del sublime.

Le perdite di pezzi della mia macchina fotografica, all’inizio insignificanti come i tappi degli obiettivi che non venivano sostituiti, poi via via sempre più gravi, fino all’irreparabile sventramento, sono la metafora della mia vita. Sì, per tutta la vita incidenti, dolori, malattie li ho curati andando in montagna, la montagna mi guariva, era il mio medico. A una certa età mi sono accorto che non bastava più, ma ho continuato come prima a fare finta di niente: da un occhio non ci vedevo bene? Tanto ne avevo due; l’artrite mi impediva di girare il collo facendo retromarcia? Chi se ne frega, c’erano gli specchietti retrovisori; un ginocchio mi faceva sempre più male? La miglior medicina era continuare a camminare per non perdere la muscolatura; si creava uno scompenso perché usavo di più l’altra gamba? Bastava applicare un peso alla gamba più debole e la sua muscolatura si rinforzava automaticamente.

Non si ha idea, una volta che si è fatta l’abitudine, di come sia bello andare in montagna senza macchina fotografica: all’inizio a dir la verità ti manca, vedi l’inquadratura e ti spiace di non poterla fotografare, allora mi capitava di chiedere a Liv, di farla lei la foto, col suo telefonino, un iPhone di ultima generazione, ma poi, visto che lei non faceva mai la foto che volevo io, si finiva sempre per litigare.

Quando il mio Nokia da 19 euro è definitivamente morto Liv mi ha dato il suo telefonino vecchio, un Samsung “del temp de Carlo Codega”, ma, a parte che quando vado in montagna il telefonino lo lascio di proposito a casa, per non essere disturbato, quello vecchio di Liv a fare le foto non vale niente, e comunque non sono mai riuscito a fotografare senza un mirino in cui guardare dentro.

Dal Rinascimento in poi quasi tutti i pittori almeno una volta nella vita si sono fatti un autoritratto, adesso col telefonino se lo può fare chiunque tutte le volte che vuole, e, a patto che abbia le braccia abbastanza lunghe, può fare anche un autoritratto di gruppo, se però come penso, hanno ragione Wordsworth, Caspar David Friedrich, Luigi Ghirri e Ivan Levrini, il selfie è la rappresentazione iconografica che più ci allontana dalla percezione del sublime, cioè dal vero motivo per cui vado in montagna.

Alberto Paleari

Alberto Paleari

Alberto Paleari ha fatto la guida alpina per 43 anni. Da metà anni ’80 ha cominciato a pubblicare guide alpinistiche, romanzi, saggi, racconti. Nel 2018 è andato in pensione per dedicarsi solo alla scrittura. Tra i suoi libri ama ricordare le sei guide che ha scritto sulle montagne della sua Val d’Ossola; il romanzo “L’angelo che scese a piedi dal Monte Rosa” sulla vita di Tanzio daVarallo, pittore walser di Alagna Valsesia che visse tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600; due libri di viag-gio: “Verso la montagna sacra” e “L’Attraversamento invernale delle Alpi”; il memoir “L’altro lato del paradiso”, racconto di cinquant’anni di frequentazione del Parco Nazionale della Valgrande; la sua autobiografia: “Le montagne e il profumo del mosto”, che racconta del mestiere di guida e degli anni in cui si è occupato dell’azienda vinicola di famiglia. Alberto continua a scrivere e ad andare in montagna.


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13 commenti:

  1. Paolo ha detto:

    Buongiorno, bellissimo articolo…..l’autore l’ho conosciuto a una presentazione di un suo libro…è una persona che starei ad ascoltare per ore….

    1. alberto paleari alberto paleari ha detto:

      Grazie Paolo, devi avermi preso in una giornata di vena perché sono uno che non sa mai cosa dire.
      Alberto

  2. roberto pedrazzoni roberto pedrazzoni ha detto:

    Ma che bello leggere la descrizione della parabola che ho vissuto anch’io, riguardo alla montagna, ma anche alla fotografia.
    E ora capisco perchè ho sempre privilegiato le foto con il soggetto di spalle, quell’inquadratura ti trascina dentro all’immagine, scuote qualcosa dentro.
    Grazie della bella condivisione.

    1. alberto paleari alberto paleari ha detto:

      Grazie Roberto, fotografare è bello, ma interrompe il dialogo con le cose, nel nostro caso con la montagna, che è più bella.

  3. Chiara Pezzoni Chiara Pezzoni ha detto:

    ma che bello questo racconto, grazie!

    1. alberto paleari alberto paleari ha detto:

      Grazie Chiara, e buone montagne:
      Alberto

  4. Marina Marina ha detto:

    Leggo questo bell’articolo in pausa pranzo, a Baveno dove temporaneamente lavoro, proprio ai piedi della tua Val Grande.
    Marina

    1. alberto paleari alberto paleari ha detto:

      Grazie Marina, lavori in un bel posto, dove dal lago vedi le montagne (della Valgrande) di cui forse mi sono un po’ appropriato scrivendone, ma non ne vado fiero.
      Alberto

  5. Beppe Guzzeloni ha detto:

    Sì, bello il racconto e bravo l’autore che una volta ho incrociato sullo spigolo della Rossa al Devero.
    Fotografare una persona di spalle è dare maggior spazio e significato alla montagna e al suo ambiente, dove quella persona è solo ospite.
    Quella persona, che non conosco, mi invita però a incuriosirmi e ad osservare con maggior attenzione.

    1. Alberto Paleari Alberto Paleari ha detto:

      Grazie Beppe, che bello lo Spigolo della Rossa, non so quante volte l’ho fatto. Mi sembra che ci vada meno gente di una volta, forse gli alpinisti di oggi lo snobbano, ma non è certo diventato più facile. Una volta al rifugio Castiglioni vendevano una cartolina in bianco e nero con una foto del Luciano Tenderini sul “Caimano”. Ho tentato più volte di farne una uguale, ma così bella non mi è mai riuscita.
      Alberto

      1. Beppe Guzzeloni ha detto:

        Anche Luciano ho conosciuto, come la moglie Mirella. In grigna.

        1. Alberto Paleari Alberto Paleari ha detto:

          Siamo gli ultimi alpinisti che fra di loro si conoscono tutti. Non sarà mai più così.
          A.

  6. clemente ha detto:

    E’ un racconto bellissimo, profondo. Con autentica semplicità ci apre la mente e indica allo sguardo il senso del mondo: pura bellezza.

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