Reportage

STRANIERI D’ALTA QUOTA / 1#

Una escursione sul ghiacciaio del Monte Bianco in compagnia di Ezio Marlier (presidente dell’Unione Valdostana Guide Alta Montagna) è l'ambito premio che ha ricevuto Giulio Carcani dal Blogger Contest 2021. Qui il suo racconto di una giornata memorabile.

testo di Giulio Carcani  / Roma

Photo by Francisco T Santos on Unsplash
22/09/2022
9 min
La fine della Val d’Aosta è cieca: si infrange su un sistema intricato di montagne.

Unico scampo: due valli laterali che circondano da est e ovest il massiccio. Dalle alte vie che le percorrono, la maggior parte di noi, dediti alla montagna ma non all’alpinismo, ha ammirato con paura, emozione e vertigine il Monte Bianco.

La chiesa di Notre dame de Guerison, con le pareti ricoperte di ex voto, rappresentazioni a sbalzo di gambe, piedi, dita, braccia, cuori, nomi e devozioni, ci riporta ad una religiosità profondamente arcaica che si incontra innanzi alle forze che da sempre governano la nostra vita: il caso, l’ignoto e la natura nella sua essenza originale. La stazione della funivia è acciaio, tecnica, cemento, computer, asetticità del calcolato e incrocia di sbieco lo sguardo della piccola chiesa. Sono i due opposti che vestono i panni del paradosso, a cui si è esposti nel tempo iniziale della salita al Monte Bianco. Poi gli occhi si perdono nell’alto. Guglie, dirupi e prospettive. Dove è il freno? Voglio fermare il marchingegno che macina dislivello, gira carrucole e contrappesi, per guardare lo stesso punto con dedizione. Ma nel tempo di un pensiero siamo già arrivati in cielo.

La Skyway Monte Bianco è un aeroporto che ogni 15 minuti vola per le terre altissime, uguale per personalità a tutti i grandi scali intercontinentali del pianeta, luccicante gentilezza, sponsor, tecnologia. Un salto spazio-temporale verso Punta Helbronner 3462 m dove un bistrot, una Feltrinelli e una pittoresca frontiera sostengono una terrazza proiettata tra i ghiacciai del massiccio più alto d’Europa. Altitudine confondente. Sono le parole, i passi e l’esperienza di Ezio Marlier, presidente dell’Unione Valdostana guide d’alta montagna, ad accompagnarmi.

Un ascensore da quota 3462 scende ai 3375 e un lungo tunnel si apre nella terrazza del rifugio Torino nuovo. È strano fare 2000 m di dislivello senza fiatone, gambe molli e magliette bagnate. I rifugi di alta montagna sono dei presidi umani in terre ostili. Lo si capisce con il mal tempo quando una lucina, al crepuscolo, solleva l’animo e la giornata finisce nel tepore. Anche qui è lo stesso perché il tunnel della Skyway si chiuderà automaticamente alle 16,30 e allora niente più salti spaziotemporali, chi c’è c’è e la zuppa servita tornerà ad essere la più buona della terra e il presidio umano brillerà di speranza per chi si attarderà nelle pareti e tra i ghiacci.

Ezio Marlier, presidente dell’Unione Valdostana guide d’alta montagna

La guida alpina, un mestiere relativamente recente
L’alpinismo è inscindibilmente legato alla figura delle guide di montagna. La società delle guide alpine di Chamonix è stata fondata 200 anni fa. Un mestiere che è relativamente recente, confine tra avventura e, almeno nella sua fase iniziale, di pratica dell’ignoto. Anche nel versante italiano si ebbe la progressiva trasformazione dei montanari, cacciatori di cristalli e di camosci, in accompagnatori di danarosi clienti. All’inizio furono per lo più scienziati a salire le vette, come De Saussure che, nel 1760, mise una “taglia” su una via praticabile al Monte Bianco. Furono Paccard, il medico di Chamonix, e un cacciatore di cristalli, Balmat, i primi a trovarla 26 anni dopo, aggiudicandosi le ghinee del premio e regalando al mondo la nascita dell’alpinismo. Il denaro, il protagonismo, le polemiche fecero da contorno a questa impresa.

Due secoli fa, l’inospitalità del mondo oltre le ultime malghe parlava un linguaggio ancestrale e pauroso. Nel centro dell’Europa illuminista, l’esplorazione delle Alpi e il rapporto con territori così remoti, si appoggiò all’estetica della meraviglia e alle ragioni dell’utile. La cartografia piegata all’esigenza di segnare un territorio per affermare un’appartenenza, tracciare dei confini geografici per la retorica degli stati nazione, utilizzò anche il neonato alpinismo. Misure, barometri, cannocchiali, trigonometrie e sestanti servirono a mettere una distanza di sicurezza tra l’ignoto, di suo incommensurabile e gli uomini. Ma per fortuna l’alpinismo non fu solo questo e disegnò, dell’animo umano, le spinte probabilmente più limpide e travolgenti: tornare a percepire un rapporto profondo con un’idea di natura incontaminata, espressione di un mondo rarefatto e non pensato dagli uomini.

Balmat si offrì di accompagnare, qualche giorno dopo la prima ascensione, de Saussure in cima al Monte Bianco diventando una delle prime guide Alpine. Oggi in val d’Aosta ce ne sono 330 (5 donne) e sono coscienti di spostare una parte importante del Pil regionale. Undici valli secondarie, undici società di guide riunite nell’Unione valdostana guide di alta montagna con l’intento di portare avanti istanze comuni. La fruizione della montagna negli ultimi decenni è cambiata nei sentimenti, nella tecnica, nei numeri. Dove è il confine tra l’utilizzo di un territorio e il sapersi fermare per cercare nuovi appigli? La guida è anche una sentinella di ambienti fragili che sono un indicatore plausibile delle contraddizioni che vive il nostro contemporaneo: sovrasfruttamento, mercificazione, crisi climatica. Saper rinunciare a vie troppo pericolose per riportare tutti a casa oggi significa interrogarsi su modello di sviluppo che rischia di arricchire nel breve e distruggere per sempre.

Si inizia a salire, Ezio avanti e io dietro.
Fuori il rifugio Ezio mi mette l’imbracatura, spiega i nodi, le sicurezze e resto affascinato da tutte queste attrezzature che un po’ mi sanno di marinaresco. Siamo legati, ramponati e apriamo il cancelletto che si spalanca sul ghiacciaio. Un’emozione forte mi prende, è la prima volta, l’ho visto di lato, di sotto, per ascoltarne i grugniti e gli scricchiolii paurosi ma mai sopra. Camminiamo ad una distanza prefissata, legati da una corda. I nostri destini, almeno in questo frangente uniti, ma non è sempre così e non ce ne accorgiamo? La linea di galleggiamento è sopra il segno del crepaccio. Ezio la pratica con naturalezza e rispetto. Conosce bene la sensazione di inadeguatezza che mi pervade pensando ad una sua scivolata. Diventerei una boa a cui si attacca un’àncora troppo pesante. Pluf. Esattamente in questa consapevolezza sta la maestria della guida.

Superiamo due crepacci e il ghiacciaio si infrange su una cima rocciosa. Si inizia a salire, Ezio avanti e io dietro. L’ascesa si fa più complessa, il fiato si accorcia. In un movimento poco elegante perdo gli occhiali da sole che scivolano lenti e inesorabili dentro la bocca spalancata del ghiacciaio. Arriveranno a valle tra qualche decennio o più e chi li troverà nel futuro ragionerà sui metodi primitivi che usavano gli uomini del 2022 per proteggersi gli occhi dal sole.

Piccozza, ghiaccio, sassi, respiri, meraviglia, silenzi, pausa e si ricomincia.
Piccozza, ghiaccio, sassi, respiri, meraviglia, silenzi, pausa e si ricomincia.
Piccozza, ghiaccio, sassi, respiri, meraviglia, silenzi, pausa e si ricomincia.

Il cervello corre veloce, per cercare di trattenere la vastità, gli occhi ben sgranati come se un battito di ciglia potesse pregiudicare l’istante.

Ci sediamo su una roccia immobili, in uno spazio aperto di introspezione, fatto di guglie e orridi. Il vento oggi è andato a sussurrare altrove e lo sguardo può regalarsi il dono della fissità, senza l’insidia dell’abbandono. La maestà di questo mondo ci regala la sospensione, ogni tanto screziata dal suono di pietre che rotolano, ormai è mezzogiorno. Ad ogni rumore Ezio sobbalza e guarda. Vede infinite vie tra le rocce e nel bianco accecante riconosce i luoghi che ha scalato. Ma non dice nulla. Alle nostre spalle la funivia verso la Francia procede senza sosta. Sotto un sasso un’arvicola veloce si nasconde.

Lo spazio aperto del Mer de Glace, riporta ad una intenzione primordiale.
Da qui la montagna diventa la risultante evidente di atroci spostamenti che frantumano, spaccano senza riguardo alcuno la tranquillità della crosta terrestre. E lo stesso ribadiscono i ghiacciai, fessurati, striati, in un caos di onde agitate in mille direzioni eppur immobili. La bellezza inquieta e lancinante di questo istante, che per noi è la nostra vita, ci turba perché ne percepiamo il mutamento turbinoso senza averne contezza, come se i giorni degli uomini fossero inadeguati a seguire i rivolgimenti del tempo profondo a cui questo mondo appartiene. Quaranta milioni di anni fa, poca cosa, le terre che oggi si chiamano Africa ed Asia si sono avvicinate facendo del loro abbraccio una catena montuosa. I dinosauri non l’hanno mai vista, non si sono mai trovati al di qua o al di là delle Alpi, semplicemente non c’erano e il loro mondo, finito venticinque milioni di anni prima, nulla sapeva dei capricci della terra.

C’è un sospetto che sorprende quando percepiamo dei mutamenti che si srotolano nei millenni in maniera così impercettibile da essere fraintesi con l’eterno: l’estraneità degli uomini al tempo. Soltanto lo spazio aperto, che si apre dal Mer de Glace, così immobile e silenzioso riporta ad una intenzione primordiale, purificata dagli uomini e dal desiderio di pensare il creato.

Ai ramponi oggi il ghiaccio è soffice, soltanto nelle pareti più ripide e in ombra bisogna insistere con un po’ d’insolenza per essere tranquilli nell’appoggio. Un oceano d’acqua cristallizzato in altitudine, immobile nei marosi, satura il paesaggio di un bianco acceso e lattiginoso, inframezzato da isole di granito scuro. Una goccia d’acqua, neve del cielo, per diventare ghiacciaio impiega anni e altri cento forse per raggiungere, in lento scivolamento, il punto finale della corsa: la fusione, acqua che tornerà cristallo soffiato dal vento. La goccia che vediamo oggi non conosce le dighe, l’energia elettrica e il cambiamento climatico perché è più antica.

Scivola verso il basso governata dalla gravità, si fa rivolo e poi ruscello, scende a valle in torrenti schiumosi e opachi trasportando la sabbia del tempo sospesa nel flusso. Sarà l’uomo che, con mille tubi la capterà, la convoglierà, la distribuirà, la trasporterà facendo delle alpi un immenso bacino idrico artefatto ad uso e consumo della necessità. E dal lago la goccia procederà nella condotta forzata accelerata oltre ogni ragionevole misura fino a far girare la turbina che in un ruggito creerà la scintilla. In nuovi tubi di rame arriverà ad alimentare la lampada, il bisturi, la segheria, l’intelligenza artificiale e la guerra.

Continuerà poi, adagio nella pianura, fino a dare conforto al chicco di grano e ad abbracciare l’erba medica che nella maggese fiorisce senza governo.

Ezio guarda il ghiacciaio, le sue fessure e sospira. Non ha mai visto alcuni crepacci così larghi, non ricorda una montagna così friabile. Mentre parla rumori di pietre ci fanno trasalire. Il permafrost che tiene salda la superficie delle cime, con il caldo di questa estate, perde la presa. In lontananza le cordate segnano ghirigori sul ghiaccio evitando i crepacci. Con la poca neve sono ben evidenti, strane bocche spalancate in muti sorrisi.

Pointe Helbronner (Photo by Diego Hurtado on Unsplash)

Il profilo di Punta Helbronner, tra la nebbia e la luna, sembra un vascello fantasma.
Il tempo dilata la giornata e si appoggia alle luci di un lunghissimo tramonto. Le funivie spengono i motori e il cuore nel petto danza sorpreso. Le nuvole avvolgono le cime per il tempo di un fugace presagio ma ecco che subito il cielo libera le stelle che gareggiano a disegnare le mappe zodiacali. Poi tutto ricomincia, nuvole, presagi e stelle.

A notte il profilo di Punta Helbronner, tra la nebbia e la luna, sembra un vascello fantasma in navigazione tra ghiacci e sospiri. L’arca, remota alla terra abitata.

Nel rifugio Torino si mescolano linguaggi e abitudini. La zuppa e lo stufato raccontano la cura e l’attenzione. Un’internazionale delle terre altissime chiacchiera, ride, racconta, pensa. Alpinisti da tutto il mondo, nepalesi i cuochi, un aiuto pachistano, Catrine, che lavora da anni nel rifugio, è del mio stesso paese della Basilicata, Trecchina. E allora l’inflessione del dialetto riporta ad altre montagne, l’appennino, il sud. Dopo colazione riassetto lo zaino e salgo per un saluto dalla terrazza panoramica e deserta, proiettata tra i ghiacci. Non fa freddo e intravedo i profili del Cervino, del Monte Rosa, i passi delle terre dei Walser che negli ultimi dieci giorni mi hanno accompagnato in Val d’Aosta.

Si scende a folle velocità in una cabina che ruota. Dentro siamo in tre e con facilità giro in senso contrario per tenere lo sguardo ad Oriente. Entro, ad intervalli regolari, in una videochiamata di una americana con la figlia in Arkansas. Nella cabina l’operatore della Sky segue gli accadimenti con distacco professionale.

Il punto che tengo fisso non sono le cime ma la terra. Finalmente intravedo dopo il secondo immenso pilone la traccia di un sentiero. Sorrido. Quello è il limite del mio mondo, oltre sono straniero. Intravedo le prime screziature ocra e poi il bianco di una achillea. Ancora più giù due camosci e in fondo il verde acceso nel giallo dei larici. Lo sguardo si rivolge a monte e chiedo scusa per essere entrato in un altrove che non mi appartiene. Gli occhi non premono più sotto le palpebre e il respiro che a notte si fa corto è un ricordo. Dalla fermata dell’autobus verso Courmayer e per le strade, le attese, le stazioni, i treni, i volti e i dialetti che accompagnano l’uscita dal sistema delle valli, una indefinibile nostalgia mi accompagnerà verso l’azzurro del cielo di Roma.
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Ringrazio Ezio Marlier per la guida, l’ironia, le parole e lo spirito dell’alta quota; l’Unione Guide Valdostane di Alta montagna, la funivia Sky Monte Bianco e il rifugio Torino per l’ospitalità, la gentilezza e la disponibilità, Altitudini per rendere possibile tutto questo.

Ezio Marlier con Giulio Carcani
Giulio Carcani con il personale del Rifugio Torino

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Giulio Carcani ha partecipato all’edizione 2021 del Blogger Contest e il suo racconto “IL CERCHIO È PERFETTO” ha ricevuto il premio speciale UVGAM Unione Valdostana Guide Alta Montagna. Il premio consisteva in una escursione in alta quota sul ghiacciaio del Monte Bianco (o in alternativa la salita in vetta all’Aiguille Marbreés 3535 m) con Ezio Marlier, guida alpina e presidente dell’Unione Valdostana Guide Alta Montagna. Il premio comprendeva una notte in ½ pensione al Rifugio Torino e la salita con la funivia Skyway Monte Bianco. Giulio Carcani, come inviato speciale di altitudini, aveva il compito di raccontare una giornata con l’Unione Valdostana Guide Alta Montagna.

Giulio Carcani

Giulio Carcani

Mi piace andare per boschi, valli, montagne, colline e sentieri di costa. Cerco di raccogliere storie e sistemarle in parole e disegni. Suono il Basso Tuba, dal suono grave e ingombrante, in una street band. Lavoro per un Istituto di ricerca che si occupa di protezione dell’ambiente.


Il mio blog | altitudini.it come la mia rivista digitale. In altitudini.it trovo un luogo accogliente e arioso dove seguire storie e racconti sghembi che aggiungono passi alle mie passeggiate.
Link al blog

3 commenti:

  1. LUCIANO LUCIANO ha detto:

    Bellissimo e coinvolgente reportage di una giornata al Monte Bianco, una sintesi accattivante tra emozioni e riflessioni, un abbraccio forte che mi ha fatto rivivere giorni analoghi trascorsi sul ghiacciaio, in quel timore reverenziale che le montagne tutte e questa, in particolare, il Bianco infondono nell’animo.
    Grazie Giulio!

  2. Andrea Andrea ha detto:

    Bravo Giulio: una “cronaca” fuori dagli schemi tradizionali, intensa, coinvolgente e densa di collegamenti “esterni” del nostro mondo, delle montagne della nostra vita di oggi (e di ieri).
    Complimenti.

  3. mario ferrazza ha detto:

    La letteratura “di montagna” tende ad alzare troppo il livello già elevato di per sè nell’ altimetria. Difficile trovare descrizioni sobrie lontane dalla retorica.

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