Racconto

PALARONDA, L’ANELLO DELLE MERAVIGLIE

"L’alta montagna e il mare sembrano agli antipodi anche se, a pensarci bene, non sono poi così diversi"

testo e foto di Valeria Galbiati  / Milano

08/09/2020
8 min
L’alta montagna e il mare sembrano agli antipodi anche se, a pensarci bene, non sono poi così diversi. Li accomunano la vastità degli spazi, il silenzio e la scarsità di tracce umane; anche la roccia è un elemento costante dei due ambienti.

25 agosto, primo giorno
San Martino di Castrozza – rifugio Rosetta

La mattina della partenza io e il mio compagno Daniele ci svegliamo alle 6, consumiamo una frugale colazione e montiamo in macchina. Da Milano affrontiamo 4 ore di viaggio che passano velocemente, con l’ambiente circostante che, un po’per volta, si libera dal cemento per accogliere la vegetazione di alta quota. Mi viene in mente “Shining”, la strepitosa scena iniziale, ripresa dall’alto, in cui la macchina corre lungo la strada che si inerpica su per la montagna. Speriamo che, arrivati nei rifugi, nessuno di noi due impazzisca!

Giunti a San Martino di Castrozza ci dirigiamo all’info point dove ci consegnano una cartelletta con materiale informativo e una cartina, su cui è segnato il nostro percorso. Poi andiamo a prendere la funivia diretta al rifugio Col Verde, punto d’inizio del cammino. Lo spostamento è piuttosto breve e l’altezza non eccessiva: io che amo molto stare sospesa nel vuoto (ovviamente in sicurezza) sono un po’ delusa, mentre Daniele che soffre di vertigini tira un sospiro di sollievo.

Giunti al rifugio cominciamo la salita, facile anche per me che non sono abituata alle camminate in montagna. In un secondo momento, però, provo una certa “strizza” perché ci sono diversi punti in cui il percorso è esposto. Un corrimano di ferro mi giunge in soccorso, anche se non riesce a cancellare il senso di precarietà che avverto ad ogni passo. Ogni tanto ci imbattiamo in altre persone, persino in famigliole con bambini la cui vista mi rasserena. Se ci sono dei ragazzini la strada non sarà poi così pericolosa!

Finalmente le zone esposte terminano e ci ritroviamo in un deserto di roccia grigio-bianca immersa nella nebbia, sul quale si erge un imponente traliccio in metallo. Potrebbe essere l’installazione di un artista-montanaro o la Torre Eiffel delle Dolomiti, invece è soltanto un banale traliccio della funivia. L’atmosfera però è tutt’altro che prosaica, la definirei piuttosto onirica e metafisica. Il silenzio è assoluto, surreale, incrinato appena dal “toc, toc” dei bastoncini sulla roccia. Fa decisamente freschino, una sensazione che da mesi avevo dimenticato. Avete mai pensato che quando si prova caldo è praticamente impossibile “risentire” mentalmente il freddo e viceversa?

Proseguiamo l’agevole salita rocciosa e, dopo circa 2 ore e mezza dall’inizio del percorso, giungiamo in prossimità del rifugio Rosetta, che si staglia sul solito deserto roccioso a 2581 metri di quota. Ogni tanto appaiono altri camminatori che emergono simili a spettri dalla nebbia lattiginosa: mi fanno pensare ad alcuni personaggi dei film di Fellini che appaiono all’improvviso avvolti dal fumo come in sogno.

Giunti a destinazione, passo del tempo seduta su di una panchina all’esterno: adesso che pure il “toc, toc” è cessato, il silenzio è davvero assoluto. Oggi la mia mente è fervida, allaccia ciò che vedo e sento a suggestioni cinematografiche e letterarie e il ricordo degli “interminati spazi”, dei “sovrumani silenzi” e della “profondissima quiete” leopardiani nasce spontaneo. Mi lascio beatamente naufragare in questo mare di pietra, poi entro con Daniele nel rifugio.

Qui tutto è caldo e accogliente, c’è legno ovunque (le pareti sono di legno, così come i tavoli e le panche) e quadri con foto d’epoca abbelliscono l’ambiente. Mi colpisce uno scalatore degli anni ‘20, forse ‘30, che per l’abbigliamento pare un impiegato o l’invitato ad un ricevimento. L’alta montagna mi è parsa sempre un luogo accessibile solo a noi moderni, con il nostro abbigliamento tecnico e l’attrezzatura giusta, eppure è stata vissuta anche da persone con attrezzatura antidiluviana, camicette e pantaloni larghi di cotone, scarpe che non useremmo nemmeno per una passeggiata in collina.

Ci viene assegnata la nostra camera, una piccolissima doppia che mi fa sentire un animaletto protetto in una tana. Sono sorpresa e felice perché mi aspettavo una camerata che, per me che non amo la promiscuità notturna, non è mai stato l’ideale.

Alla felicità segue un pizzico di delusione quando mi vado a lavare in bagno e scopro che l’acqua è gelida. Però penso pure che faccia bene, ogni tanto e per breve tempo, abbandonare i comfort quotidiani e fare un salto indietro nel passato. Serve a fortificare corpo e spirito e a tornare con più gusto alla vita agevole di tutti i giorni. Quando mi stendo nel letto realizzo che fa anche freddo e, soprattutto, che c’è umidità: una parte di me si “rimangia” i pensieri di cinque minuti prima!

26 agosto, secondo giorno
rifugio Rosetta – rifugio Pradidali

Dopo un’abbondante e gustosa colazione ci mettiamo in marcia verso il rifugio Pradidali (2278 m), avanzando per una discesa poco impegnativa. Dal deserto di roccia emerge, qua e là, qualche ciuffetto d’erba con dei teneri fiorellini. Paiono decorazioni disposte da mano femminile per impreziosire il paesaggio aspro e virile.

Dopo 3 ore e mezza di cammino dall’inizio del percorso, alle 11:30 eccoci al rifugio. Qui troviamo Alessandro, un simpatico signore romano che abbiamo conosciuto la sera prima al Rosetta e con il quale scambiamo quattro chiacchiere. È rassicurante incontrare facce familiari in ambienti sconosciuti.

Il Pradidali è una versione più piccola del Rosetta ed è sovrastato dalla Pala di San Martino. Qui si trova Cima Canali, tanto cara a Dino Buzzati che, a quanto pare, ha tratto ispirazione da queste montagne per il “Deserto dei Tartari”. Scoprirò in seguito che lo scrittore – da me amato fin da bambina – ha soggiornato al Pradidali dove c’è ancora la sua camera: peccato non averlo saputo prima, mi sarebbe piaciuto vederla. Ma forse meglio così, posso pensare che sia la doppia che ci è stata assegnata.

Ci rifocilliamo con un bel piatto di wurstel e crauti io, gulash con patate Daniele, facciamo un riposino nella camera di Buzzati (!) e infine decidiamo di raggiungere il Passo di Ball, poco distante.

L’ambientazione lunare ha lasciato il posto ad un ambiente dove regna la vita, con verdi praticelli “all’inglese” che ricoprono ampi tratti di roccia e persino un pascolo di pecore che, con il loro scampanio, creano la piacevole colonna sonora della nostra passeggiata. Daniele si improvvisa scalatore inerpicandosi su un masso, io preferisco osservarlo dal basso. L’alto mare e l’alta montagna sembrano agli antipodi anche se, a pensarci bene, non sono poi così diversi. Li accomunano la vastità degli spazi, il silenzio e la scarsità di tracce umane; anche la roccia è un elemento costante dei due ambienti, pensiero che formulo guardando Daniele che svetta in cima al masso simile ad un tuffatore pronto a gettarsi.

Al Passo di Ball ci sediamo ad ammirare il paesaggio, con la Pala che cattura la mia attenzione in ogni istante. Daniele mi dice che là ci sono ben 11 vie di arrampicata e così mi viene in mente mio fratello che ha passato metà della sua vita a scalare le montagne. Mi accorgo che la connessione internet funziona a meraviglia (incredibile, perché ovunque è praticamente impossibile trovare campo!) e così gli invio subito un messaggio. Mi risponde che, anni fa, è stato su una delle Pale e che sulle Dolomiti hanno scalato praticamente ogni sasso. La sola idea di inerpicarmi su questi bestioni mi fa venire le vertigini, ma lui afferma che, talvolta, ciò che da lontano sembra tanto arduo non è poi così difficile e viceversa. Sarà.

Prendiamo la via del ritorno e, lungo il sentiero, ci ritroviamo spettatori di uno strabiliante gioco magico che sembra opera di un prestigiatore o di un addetto agli effetti speciali. Improvvisamente l’atmosfera si satura di nebbia e non vediamo più niente, dopo qualche minuto i vapori si diradano del tutto, poi tornano a nascondere ogni cosa e via dicendo. Restiamo incantati dalla scena e ringraziamo il cielo di essere a un passo dal rifugio, che raggiungiamo affamati ma pienamente soddisfatti.

27 agosto, terzo giorno
rifugio Pradidali – rifugio Treviso

Oggi il percorso è diretto all’ultimo rifugio, il Treviso a 1630 metri, e ancora una volta è praticamente tutto in discesa. Inizio a camminare baldanzosa e sorridente vedendo che la strada non presenta difficoltà, ma presto la musica cambia e mi ritrovo a dover passare su alcuni punti scoperti forse anche peggiori di quelli del primo giorno: il cerchio si chiude e a me si chiude lo stomaco. Mi faccio coraggio e, rassicurata un poco dal freddo corrimano di metallo in una mano e dalla stretta tenace di Daniele nell’altra, convincendomi che alla mia destra (o alla mia sinistra, a seconda) c’è un bel prato fiorito e accogliente invece che uno strapiombo assassino, proseguo.

Finalmente arriviamo a valle, dove attraversiamo boschi di conifere tra sentieri di terra e sassi. Incontriamo una coppia di fiorentini, marito, moglie e il loro cane, molto affabile, con la quale scambiamo quattro chiacchiere e che si aggiunge all’elenco di gente simpatica e civile con cui abbiamo interagito in questi giorni. Ho l’impressione che le persone che frequentano l’alta montagna siano un po’speciali perché, al contrario del mare che promette, per lo più, una vacanza comoda e rilassata adatta a tutti, i monti non sono di “bocca buona” e selezionano con cura i loro ospiti. Insomma, il “tamarro” chiassoso e maleducato, sulle Dolomiti è improbabile trovarlo.

La via si allarga, diventa addirittura carrabile e ci conduce fino alla malga Canali a 1200 metri, dove giungiamo verso l’ora di pranzo. C’è parecchia gente qui a degustare le bontà della montagna e a noi sembra di essere tornati nella civiltà. Consumiamo velocemente quelle quattro cose che ci siamo portati dietro (un pezzetto di formaggio, del pane, frutta secca e barrette ai cereali), poi io faccio un giro di ricognizione e a un certo punto mi si allarga il cuore. C’è un piccolo recinto con delle cucce e una decina di cagnolini (probabilmente futuri cani pastori) che giocano tra loro, palle di pelo meravigliose che mi attraggono come calamite. Un bambino scavalca la recinzione e mi porge un cucciolo, lo prendo senza esitazione e, felice, corro via con il mio trofeo vivente tra le braccia. In breve si forma un crocchio di gente attorno a me che intona un coro di “Oooooh che dolce… Oooooh che bellino…” e io mi sento orgogliosa come se fosse il mio bebè. A malincuore lo restituisco al bimbo che me lo aveva “offerto” e riprendo con Daniele (e Alessandro, che abbiamo incontrato alla malga) il cammino.

Percorriamo una strada carrabile, prima molto ampia, in salita e sotto il sole cocente, poi più stretta, quasi in piano e riparata dagli alberi; alla nostra sinistra si snoda l’ampio e candido letto di un fiume, adesso quasi completamente in secca. L’ultimo pezzo del percorso è fortemente in salita ma il tratto non è molto lungo e la fatica quasi non la sento. Il paesaggio arido di roccia a cui io, che non avevo mai avuto esperienze in alta quota, non ero avvezza prima di questa esperienza, è oramai un ricordo e al suo posto è tornato l’ambiente familiare del bosco. Provo un pizzico di nostalgia per una dimensione irreale e sospesa, quasi magnetica: per certi versi un’atmosfera che mi ricorda il periodo recentissimo di quarantena dovuto all’emergenza Coronavirus, quando un incantesimo aveva addormentato le città di tutta Italia.

Arriviamo al Treviso al termine di un’irta salita con degli scalini e ad accoglierci c’è una sorta di altarino con le foto di persone (per lo più giovani) morte su queste montagne. Un simpatico benvenuto che, per fortuna, non è stato piazzato all’ingresso del primo rifugio!

Trascorriamo piacevolmente la serata assieme ad Alessandro che oramai è diventato il nostro compagno di avventura, infine ci corichiamo salutandoci con un “a domani pomeriggio”. Per l’ultima tappa, lunga e impegnativa, abbiamo deciso infatti di separarci: Daniele la farà a piedi assieme ad altri ospiti del rifugio, io e Alessandro prenderemo l’autobus che ci riporterà a San Martino. Avverto un filo di rimorso all’idea di aver saltato “a piè pari” l’ultima tappa, poi però penso che la sveglia di Daniele suonerà alle cinque e mezza mentre la mia due ore dopo e mi addormento con il sorriso.

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28 agosto, quarto giorno
rifugio Treviso – rifugio Rosetta

[Segue adesso il racconto di Daniele]

Ultimo tratto, la parte che dicono essere la più dura, un lungo sentiero verticale che dai 1630 metri del rifugio Treviso, porta in alto al Passo Canali. Da qui un vasto altipiano di roccia granitica conduce al rifugio Rosetta a 2578 metri. Il tempo è instabile e dicono che potrebbe piovere nel pomeriggio, si deve partire presto. La montagna non va mai sottovalutata, impone rispetto e massima attenzione. Gli altri diventano importanti. Il gruppo è risorsa e sicurezza, soli si aumenta il rischio. Per questo mi aggrego spontaneamente ad altri ospiti del rifugio decidendo di affrontare il percorso assieme a loro.

Sono le 6:30 quando imbocchiamo il sentiero che porta su. Si procede lentamente. Davanti si staglia una montagna maestosa coperta da una spessa coltre di nubi bianche. In breve ci lasciamo alle spalle gli ultimi alberi. Resistono all’altitudine solo i cespugli e qualche ciuffo d’erba. Qualche volta si guarda indietro, giù nella valle verde di abeti. Sono passate due ore quando si varca la soglia delle nubi e si entra in un’altra dimensione. L’umido sui vestiti e tra i capelli, gli sbuffi di fiato, la visibilità ridotta, i suoni, quelli che produce il passo, ovattati e sordi. Si sale. Superiamo canaloni, resti di prati verticali, tratti rocciosi da scalare con le mani. Coste di pietra prendono il posto del sentiero. Poi, di colpo, la pendenza sparisce, camminiamo in piano. Sbuca dal nulla la segnaletica che indica che siamo al Passo Canali, 2400 metri e qualcosa. Sparisce anche la coltre di nubi, qui è sereno e tira vento. Forse il peggio è passato. Breve momento di celebrazione con i compagni di sentiero, poi si continua attraverso il deserto di roccia. Piccoli promontori separano tratti pianeggianti e  avvallamenti, regna un silenzio puro e unico. Qualche cima all’orizzonte sta lì ferma e impassibile, sferzata dal vento, accarezzata dalle nubi. Si procede in questo paesaggio surreale fino a intravvedere, in lontananza, il rifugio Rosetta. Iniezione di fiducia e morale che vola alto. Quando arriviamo sono quasi le 12.00.
_____
Valeria Galbiati ha partecipato all’edizione 2019 del Blogger Contest, il suo racconto “Sopravvissuto” è stato premiato dalla giuria con il premio speciale Palaronda: 4 giorni di trekking offerto dai gestori dei rifugi delle Pale di San Martino. Come inviata speciale di altitudini.it aveva il compito di raccontare il suo Palaronda.
Valeria e Daniele desiderano ringraziare i gestori dei rifugi Rosetta, Pradidali e Treviso per aver reso possibile questa indimenticabile avventura.

www.palarondatrek.com

Valeria Galbiati

Valeria Galbiati

Mi chiamo Valeria e mi piacciono tante cose, spesso in contrasto fra loro. Sono copywriter, amo la scrittura e la parola ma anche il silenzio, non posso fare a meno degli amici ma ho bisogno di solitudine, adoro la città ma mi rigenero nella natura. Camminare è la mia passione.


Il mio blog | Memorie, immagini e narrazioni sul camminare: in città o in alta montagna, tra i campi di grano o sopra una scogliera. Resoconto di percorsi impegnativi, passeggiate rigeneranti, flânerie. Questo è “UnaPasseggiata.org”, un blog a quattro mani che nasce dalla curiosità e dalla ricerca di bellezza.
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