Ad esempio un ghiacciaio. Possiamo accompagnarlo nella sua fine, parlare di masse mancanti, di sabbie e acque di scioglimento metalliche, le alte temperature e i crolli, oppure possiamo raccontare tutto il ghiacciaio, dal suo inizio alla sua fine, le nevi che si accumulano, il suo ventre che erode il fondo roccioso delle valli, i crepacci e le morene, i suoni notturni, come una grande epica geologica che difficilmente abita il nostro immaginario.
Nel primo caso l’apocalisse e il cordoglio, nel secondo un canto inumano terrestre. Pensiamo ai capodogli. Spiaggiati, il ventre gonfio di plastica, le carni tumefatte, la decomposizione, oppure Moby Dick e le nursery delle balene madri nel cristallo blu delle acque. Quello che voglio dire è che bisogna capire quale immaginario stia distillando l’Antropocene, e quale immaginario può servirci per sopravvivere. Perché il problema è questo: abbiamo smesso di vedere dentro ciò che stiamo perdendo.
Registrare la perdita è importante, ma il ruolo dello scrittore, dell’artista, è quello di lanciare immagini oltre il muretto dell’adesso-qui.
Le cose se ne stanno andando due volte, là fuori e nella nostra testa. Possiamo ad esempio registrare l’estinzione della tigre della Tasmania nel 1936, ma se guardiamo gli ultimi frammenti filmati di quell’animale, che si muove quasi come lo xenomorfo di Alien, ci prende un nodo alla gola e ci diciamo cazzo ma allora esisteva veramente. Ecco, per me dobbiamo provare a recuperare quel tuffo, quel mancamento sotto i piedi, una specie di realizzazione che il “veramente” è tutto.
Veramente stiamo perdendo la terra. Veramente abbiamo perso luoghi e animali e cose. E, certo, anche le persone. Perché registrare la perdita è importante, ma il ruolo dello scrittore, dell’artista, è quello di lanciare immagini oltre il muretto dell’adesso-qui. Qualcuno le raccoglierà e allora, tra tutta quella morte, sarà meno solo.