Intervista

Quel profumo di resina che non avrei mai voluto sentire

Omar Gubeila da due anni gestisce il rifugio De Gasperi, nelle Dolomite Pesarine. La stagione è finita ed è il tempo migliore per fare due chiacchiere in attesa del nuovo anno. Ma intanto succede l'imprevedibile.

testo di Simonetta Radice e Omar Gubeila, foto di Omar Gubeila

09/11/2018
8 min

Questa intervista era nata in un altro modo, era nata perché volevamo che Omar ci raccontasse della sua scelta di vita nel diventare gestore di un rifugio e della sua esperienza di questi due anni al De Gasperi.
Quante volte, davanti al PC e seduti a una scrivania, abbiamo pensato “che ci faccio qui?” Anche Omar l’ha pensato. E a un certo punto deve essersi risposto qualcosa tipo “niente”, in maniera molto convincente. Così si è alzato ed è andato altrove. Con un coraggio e una nitidezza d’azione che spesso ci manca. Ma volevamo anche capire con lui le potenzialità, le caratteristiche ed eventualmente i punti deboli di un territorio senza dubbio non tra i più frequentati e blasonati dell’arco alpino. Poi è successo quello che è successo e dato che anche la zona dove è situato il rifugio De Gasperi è stata investita dall’ondata di maltempo, gli abbiamo chiesto un aggiornamento della situazione. In questo articolo trovate quindi un dopo e un prima. Con un motivo in più per andare al rifugio De Gasperi. La prossima estate.

Tolmezzo, giovedì 1 novembre 2018

In due giorni ha piovuto come fossero tre mesi
Continua a piovere anche adesso che scrivo, ma gli scorsi giorni è stato peggio.
In particolare lunedì, verso sera, i territori delle Alpi Carniche, dove più dove meno, sono stati teatro di una catastrofe naturale senza precedenti, almeno a memoria personale.
Ho vissuto l’evento nella mia casa di Tolmezzo. Tutto è cominciato con la pioggia battente, accompagnata da vento di scirocco, di quello che fa alzare le temperature oltre la media e che d’inverno scioglie la neve sulle cime. Anche nei giorni precedenti il sisma del ‘76 le giornate erano stranamente calde. La gente non dimentica certe sensazioni dove l’angoscia è stata cullata dal terrore e prima di quest’ondata di mal tempo, la scorsa settimana, la corrente di fohn caldissima ha come anticipato una nuova sventura. Solo che stavolta s’è presentata sotto forma di acqua dal cielo, tantissima, in due giorni ha piovuto come fossero tre mesi. E vento, come non s’era mai visto.

Come se un pettine gigante avesse rastrellato i boschi
La sera di lunedì ho avuto paura per la prima volta in vita mia di un evento atmosferico.
Dagli abbaini della mia casa, nel sottotetto, ho potuto sentire quel vento straniero che di lì a poco avrebbe distrutto tutto come un rullo compressore. Nella conca di Tolmezzo c’è stato il preludio, qualche danno a tetti e coperture, lamiere volate via ma, in fin dei conti, nulla di troppo serio. L’ho sentito prendere a spintoni le case del mio paesello e scapparsene via verso le montagne, accompagnato dall’acqua dei nuvoloni che si portava appresso. Le valli e le dorsali Carniche lo hanno poi trasformato in una vera e propria bufera. Un uragano che ha steso a terra tutto quello che s’è trovato di fronte.
È arrivato dove nei giorni precedenti gli acquazzoni si sono succeduti senza soluzione di continuità ingrossando i torrenti a dismisura e saturando i versanti che, ironia della sorte, non vedevano pioggia da mesi. E tutto è venuto giù. Come la forza di gravità anche il soffio impetuoso ha steso le foreste orientando i fusti degli abeti nella medesima direzione. Come se un pettine gigante avesse rastrellato i boschi per metter ordine dirigendo tutti i fusti degli abeti nella stessa direzione.

Lunedì sera il culmine, tutto ululava
Martedì mattina ho potuto rendermi conto della gravità della situazione operando con il CNSAS nei vari paesi colpiti, trasportando medicinali o rilevando situazioni di potenziale pericolo a supporto della Protezione Civile. La Carnia è stata spezzata in due. Uno dei principali ponti della viabilità extraurbana è stato mangiato dall’impeto delle acque. Il torrente Degano, solitamente piuttosto cheto, è diventato portatore improvviso di materiali d’ogni genere dilavati dai monti con una furia mai vista prima.
Su verso il mio rifugio, in Val Pesarina, numerose frane si sono abbattute sulla strada causandone la chiusura in più punti. Diversi paesi sono rimasti isolati. Saltata l’energia elettrica, saltati i collegamenti telefonici. Come nel resto dell’intero territorio montano.

Cerco di salire verso il rifugio
Mercoledì, preoccupato per il De Gasperi ma già con una certa rassegnazione in cuore, cerco di salire verso il rifugio. Da subito mi avvertono che la strada è interrotta poco oltre l’ultimo paese della valle. Facciamo qualche chilometro oltrepassando cavi elettrici dell’alta tensione stesi sull’asfalto: numerosi piloni sono mozzati a metà altezza. Poco oltre un mezzo è intento a liberare la sede stradale dalle centinaia d’abeti caduti. Anche qui l’impressione è di una certa armonia in questa devastazione. Qualcuno lassù deve aver giocato a Shangai con le nostre foreste. Da lontano pare rotolata un’enorme biglia che, rimbalzando tra i versanti, ha steso sulla sua corsa tutto ciò che gli stava sotto. Come quando si giocava da bambini con le biglie in spiaggia, ma qua si parla di interi versanti delle montagne. Per raggiungere il parcheggio estivo, dove si arriva in automobile, impieghiamo circa un’ora di cammino. Un’ora di complicati sbrogliamenti tra ramaglie e tronchi mozzati. Un inferno.
La neonata stazione sciistica di Pradibosco nemmeno inaugurata pare già da buttare: alberi abbattuti sull’impianto, seggiolini sputati a decine di metri dai cavi, metalli spezzati battuti dal maglio della bufera.

Queste erano le “scale di casa nostra”
Cominciamo a salire. Quello che era un sentiero fino a qualche giorno fa, diventa un irriconoscibile versante devastato. Ho percorso questi boschi centinaia di volte oramai, con il mio socio queste erano le “scale di casa nostra”, avevamo dato un nome ad ogni sasso a forza di vederli. Adesso non capisco nemmeno dove sono, a stento trovo il percorso giusto. E ci impieghiamo un’eternità. Lo sconforto prevale, tutto è demolito ed abbattuto. Gli alberi versano radici all’aria, con fatica continuiamo a salire. In un traverso in quota il sentiero si è abbassato di dieci metri, in un punto pare intatto ma di fatto è scivolato dalla sua sede naturale perché coinvolto in quello che capiremo essere un grosso smottamento dell’intero versante.
Giungiamo al rifugio. Incredibilmente solo un po’ di acqua è filtrata all’interno dal tetto ma la struttura e le finiture paiono aver retto; i vecchi una volta sapevano il fatto loro in fatto di edilizia. Verso la teleferica, cordone ombelicale indispensabile per la gestione, le casette di servizio sono state scoperchiate e sventrate senza remore. Alcune apparecchiature elettriche di fondamentale utilizzo sono finite sott’acqua. E c’è già la neve.
Rientro a valle. In questo cimitero verde oggi lascio una parte del mio cuore.
C’è una splendida essenza di resina che pervade ogni spazio, avrei preferito non sentirla.

– Omar Gubeila

C’è una splendida essenza di resina che pervade ogni spazio, avrei preferito non sentirla

Tolmezzo, ottobre 2018

Omar, da quando gestisci il rifugio De Gasperi?
Dal 2017, in pratica ho appena terminato la seconda stagione della mia gestione.

Come sei arrivato a questa scelta?
Dicono che le vie del Signore siano infinite e, nel mio caso, il detto casca “a fagiolo”. La mia passione più grande è sempre stata la montagna e quanto attorno ne orbita. Prima di cambiare vita, se così si può dire, ho passato 14 anni seduto in un ufficio per 10 ore al giorno davanti allo schermo di un PC masticando burocrazia. Mi chiesi più volte cosa stessi facendo di buono per me stesso e per la società e se avesse un senso produrre quintali di scartoffie per lo più inutili. Uno stato delle cose che mi andava sempre più stretto. Chi mi conosce meglio del sottoscritto, e cioè mia moglie, colse segnali piuttosto evidenti di scoramento psicologico e mi convinse a prendere questa strada. Non è stato facile fare questo salto nel buio ma ora devo dire che vivo sereno e faccio quel che mi piace.

Com’è andata la stagione?
Nel complesso bene. Il mese di luglio è stato purtroppo parzialmente interessato da quel fenomeno conosciuto come “meteoterrorismo”: previsioni meteo puntualmente errate che portano le persone a non salire in montagna. Purtroppo l’80% delle piogge previste non sono mai arrivate. E, di conseguenza, nemmeno le persone.

Quali sono le maggiori sfide e le maggiori soddisfazioni di questa professione?
Il rifugio che gestisco assieme a Simone è tra quelli più complessi, un vero rifugio alpino che è raggiungibile anche per noi dello staff in un’ora e trenta di cammino. Le difficoltà primarie sono insite in questa distanza dalle comodità del fondovalle; ad esempio se serve una semplicissima vite, ci vogliono 3 ore per andare alla ferramenta e tornare al rifugio. Gli approvigionamenti in generale nonché gli impianti piuttosto vetusti dell’edificio sono le cose che ci danno più grattacapi. Garantire la normalità è di per sé una bella vittoria. La sfida con le normative e le procedure del fondovalle è un’altra bella gatta da pelare: ti chiedono di scansionare ed inviare un documento ma a 1800 metri non è una passeggiata, documentazioni obbligatorie superflue che incidono pesantemente sul bilancio, etc. etc.
Una sfida a lungo termine che ho particolarmente a cuore è quella di far rivivere il De Gasperi dopo la scarsa frequentazione dovuta a quanto successo prima del nostro arrivo e su cui non voglio scendere nel dettaglio. Riportare gli alpinisti, gli arrampicatori ma anche i bimbi con le famiglie al Dega è il nostro obbiettivo per i prossimi tempi.
Tra le soddisfazioni senz’altro il rapporto con le persone, i sorrisi degli ospiti quando lasciano il rifugio dopo una notte da noi ma anche fornire informazioni tecniche su percorsi alpinistici e ricevere un grazie, detto con gli occhi prima che con la bocca, queste sono le soddisfazioni che quotidianamente vivo in quota.
Vivere circondato e dentro la natura. Basta un’occhiata alle cime che mi sovrastano o al cielo stellato di una notte estiva per far passare gran parte della stanchezza del mio lavoro.

Riportare gli alpinisti, ma anche i bimbi con le famiglie al Dega è il nostro obbiettivo

Oggi che cosa si aspetta la gente da un rifugio?
Credo che il ruolo del rifugio sia parecchio cambiato negli ultimi decenni. Sono un gestore da solo 2 anni ma il trend è innegabile: a queste quote e non trattandosi di rifugio posto su un ghiacciaio, l’edificio è visto in primis come un ristorante d’alta quota dove arrivare dopo la scampagnata e gustarsi un buon pranzo prima del rientro a valle. In tal senso le persone sono divisibili in due categorie: montanari e turisti mordi e fuggi. I primi si accontentano di quello che il rifugio offre ed evitano richieste che nulla centrano con il contesto. I secondi portano spesso pretese fuori luogo forse non comprendendo a fondo le difficoltà del servizio a queste quote. Noi ci facciamo una risata ma non sono nuove richieste come gelati, ghiaccioli, uva bianca croccante, cocktails, etc. etc.

Che tipo di pubblico accogliete? Alpinisti, escursionisti…
Come ti dicevo soprattutto escursionisti che vedono nel rifugio la meta ultima della giornata. Molti anche gli escursionisti di passaggio che transitano al Dega dopo aver percorso il sentiero attrezzato Corbellini lungo un giro ad anello che li riporta a Sappada. Pochi ancora, purtroppo, gli alpinisti e gli arrampicatori.. Ma ci stiamo lavorando, le potenzialità per l’arrampicata sportiva e tradizionale sono tante.

Che cosa pensi delle manifestazioni in quota? Tipo grandi concerti o eventi in qualche modo di massa.
Tra le regole di base che mi sono posto assieme al socio all’esordio della nostra gestione è il divieto assoluto di realizzare eventi in rifugio che non c’entrino nulla con il contesto delle Dolomiti Pesarine. Sono capitato in passato, transitando nelle mie escursioni, a queste feste in quota e mi sono allontanato subito inseguito dal fragore delle casse a pieno volume. E’ comprensibile quanto addotto dai colleghi gestori che tali eventi risanino i bilanci sempre rosicati dei rifugi ma purtroppo io sono un puritano integralista: meglio povero e in pace con le mie credenze che organizzatore di un appuntamento che nulla c’entra con la montagna. Al Dega, quindi, abbiamo messo al bando musica elettronica e/o cose del genere. Stiamo investendo invece parecchio in appuntamenti di nicchia come spettacoli teatrali, musica dal vivo, serate alpinistiche, etc. Per il prossimo anno bollono già in pentola corsi di scrittura creativa ed incontri a tema.

Spesso sembra che le persone vadano in montagna a cercare le cose che sono in realtà tipiche del fondovalle, che cosa ne pensi?
Si capita per la categoria riportata nella domanda precedente. Purtroppo tante persone sono legate ai loro usi quotidiani e alle loro abitudini e non capiscono che in fondo, l’andare in montagna, è bello anche perché ti permette di vivere una piccola avventura fuori dalla quotidianità. Ma i cambiamenti spesso fanno paura. Per me andare in quota è sempre stato sinonimo di “cambiare aria”, provare emozioni nuove e genuine, anche solo adattandosi ad una notte in sacco a pelo o ad un panino mangiato su di un prato fiorito. Sono emozioni che si imprimono nella testa e li ci restano.

Per il prossimo anno bollono già in pentola corsi di scrittura creativa ed incontri a tema

Quali sono le peculiarità e le problematiche della valle in cui lavori?
La valle Pesarina, così come più in generale la Carnia, ha una grossa potenzialità: la genuinità della natura e la scarsa frequentazione. Può capitare di camminare per giorni senza incontrare nessuno sui sentieri. Un aspetto di primaria importanza confermato dai tanti ospiti stranieri con cui mi sono confrontato. Ad esempio, a luglio, ho avuto un cliente di Vienna che fa il “cacciatore” di luoghi selvaggi. Un viaggiatore di monti che migra in tutto il continente europeo. Si è fermato da me tre giorni confermando la mia teoria che tra tutte le montagne europee quelle carniche sono tra le meno antropizzate e più splendidamente selvagge.
Di contro le problematiche sono quelle di cui si parla quotidianamente: spopolamento e abbandono. Il bosco si sta riprendendo il suo spazio ad una velocità incredibile, i giovani scappano per la mancanza di servizi e il cerchio si stringe sempre di più. Mancano le infrastrutture basilari, come ad esempio i trasporti. Per salire al Dega non ci sono linee pubbliche che passino al punto di partenza del sentiero, la fermata più vicina è a 8 km. La tanto decantata politica della montagna e dell’aiuto ai giovani in montagna la vedo in lontananza all’orizzonte dalla terrazza del rifugio, resta nel fondovalle ben lontana dalle nostre necessità e richieste: in due anni di gestione l’unico sostegno parziale è arrivato dalla regione per l’organizzazione di qualche evento culturale. Per il resto silenzio stampa nonostante le richieste inviate. Fortunatamente siamo giovani pieni di voglia di fare e di entusiasmo, ma non nego che capita anche qualche attimo di scoramento.

Che tipo di sviluppo immagini per il suo futuro?
Auspico una maggiore frequentazione delle Dolomiti Pesarine da parte degli amanti della montagna. Uno sviluppo che resti armoniosamente legato a questi luoghi conservandone la peculiarità di un turismo “slow”. Quest’anno la regione ha previsto la possibilità di raggiungere i rifugi in quota con le automobili, ovviamente dove è presente una strada di servizio. Tanti colleghi gestori hanno festeggiato divulgando tale possibilità auspicando un maggiore afflusso di clienti. Noi del Dega crediamo il contrario: in futuro punteremo molto invece su quelle persone che la domenica, anziché andare nei nuovi autogrill in quota, vorranno camminare almeno per una giornata lontano dal caos che quotidianamente vivono. E qua riemerge il mio integralismo.
Mi sto impegnando per lo sviluppo alpinistico della zona, ho infatti da poco terminato una nuova falesia di arrampicata sportiva a due passi dal rifugio. E poi c’è la ferrata dei 50, una perla delle Dolomiti Pesarine, bloccata da due anni da questioni puramente burocratiche.
Quando, in futuro, nelle camere del mio rifugio tintinneranno moschettoni e chiodi, allora avrò raggiunto gli obbiettivi che mi sono prefissato.

E per il tuo di futuro?
Bella domanda. Provare a raggiungere la qualifica di tecnico di elisoccorso con il CNSAS è un sogno che ho nel cassetto da un po’. Continuare la strada che mi porta a vivere di montagna per tutto il tempo dell’anno. Poter definirmi “montanaro” nel senso più genuino del termine sarebbe una bella soddisfazione. Per ora non posso dirlo anche se tra rifugio e soccorso piste in inverno mi tengo abbastanza impegnato in altura. Pare che la mia gestione del rifugio sia apprezzata, magari troverò in futuro una struttura che sia gestibile anche d’inverno. Se poi mio figlio avrà voglia di seguire le orme di suo padre appassionandosi a queste nostre fantastiche montagne, sarà una bella soddisfazione. Per ora a 7 anni si definisce “la guida turistica del rifugio De Gasperi”. E da quest’anno spina anche le birre. Comincia a chiedere se voglio un boccale già prima di colazione!

Poter definirmi “montanaro” nel senso più genuino del termine sarebbe una bella soddisfazione
Omar Gubeila
Simonetta Radice

Simonetta Radice

Giornalista pubblicista, addetta comunicazione. Da sempre amo la montagna e tutto ciò che ha a che fare con essa. La libertà è un poco al di là delle tue paure. Vivo tra Milano e Gignese (VB).


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