Sono due mesi che con il mio compagno d’avventura cerchiamo di sparire nelle pieghe di un territorio ricco di catene montuose.
Siamo partiti da Istanbul in Turchia e la nostra meta è Teheran in Iran. Nessuna conquista in programma, ma tanta voglia di avventura e di raccogliere storie autentiche.
Abbiamo disegnato linee un po’ ovunque sulle montagne del Kaçkar, del Caucaso Maggiore e di quello Minore seguendo sentieri tracciati a matita leggera e inventando percorsi nuovi in luoghi dimenticati dove regna il silenzio e si incontrano identità preziose ancora capaci di nascondere qualcosa di unico.
Da qualche giorno abbiamo passato la frontiera tra Armenia e Iran e stiamo percorrendo l’altopiano iraniano in direzione dei monti Elburz; vogliamo seguire la stessa rotta percorsa da Robert Byron nella sua La via per l’Oxiana, dal lago Urmia verso Maragheh.
Adesso è notte e sto scrivendo in modo frenetico, al buio, mentre siamo preda di una ventina di cani randagi che circondano la nostra tendina.
Nel pomeriggio con ancora il sole alto, abbiamo sistemato la tenda in un prato apparentemente sicuro, pianeggiante, in vista di un affascinante villaggio iraniano caratterizzato da case scavate nel tufo. Tutti gli abitanti hanno seguito il montaggio del nostro semplice accampamento. Siamo stati accolti da alcuni pastori, bevuto un’ottima tazza di tè seduti in cerchio imparando a sorseggiarlo alla maniera iraniana, con zollette irregolari di zucchero infilate tra i denti e infine abbiamo camminato tra le strette viuzze polverose salutando amichevolmente la popolazione locale. Il tutto lasciava presagire una notte tranquilla. Eppure è risaputo che i programmi non coincidono quasi mai con la realtà e ci vuole sempre un po’ di tempo per capire se questo sia un bene o un male, ma sicuramente al momento vorrei essere altrove, al sicuro.
Un branco di cani randagi ha capito che al di là del finissimo strato di nylon ci sono due viaggiatori molto appetibili.
Tutto è iniziato con un temporale fortissimo, che ha tamburellato sulla tenda per alcune ore, lampi e fulmini hanno illuminato il villaggio, gettando ombre tra le torri di roccia e le case. Poi è rimasto il silenzio del vento che asciuga l’erba e muove la nostra veranda come una vela per colpa di un picchetto saltato.
Finalmente la tensione passa, la pace si fa calore e le gambe si allungano rilassate mentre il corpo diventa un tutt’uno con il sacco a pelo. Sento il mio compagno finalmente rilassato, abbandonato al sonno con un respiro normale; ma basta un attimo per farci irrigidire nuovamente. Rumori anomali. Impossibile ignorarli. Un branco di cani randagi ha capito che al di là del finissimo strato di nylon ci sono due viaggiatori molto appetibili.
Provo a pensare positivo ed invece mi viene in mente che quando da piccolo avevo la febbre alta i miei genitori mi mettevano a dormire al caldo sotto strati di coperte. Sognavo spesso una specie di imbuto in cui dovevo passare per uscire dal malessere. Poteva assomigliare ad una clessidra quel passaggio stretto che si faceva sempre più insidioso, un incubo, qualcosa di scuro e di indecifrabile.
Cambio ricordo, ma finisco su un’immagine adolescenziale reale che ho vissuto quando con mio papà siamo andati a percorrere una lunghissima grotta nel carso friulano. Avevamo dovuto strisciare come vermi sulla terra per uscire da una situazione scomoda mentre la guida speleologica ci spiegava come districarsi tra pareti di roccia friabile e quel ghiaino che ci sfiorava la faccia. “Prima la testa, poi le spalle, via così… dai!” – Là nel buio quasi totale per un momento ho pensato che mio papà rimanesse imbottigliato.
Saltelli, rimbalzi e corse folli su e giù per le montagne per raggiungere poi colorati altipiani.
Sono passati un po’ di anni e ora sono qua nel sacco a pelo e me la sto facendo addosso di nuovo. Ho la testa che viaggia ad una velocità tale che sto impazzendo, scrivo, sudo freddo, mi sento come una mosca intrappolata che rimbalza sul vetro di una finestra con i pensieri a mille. Ho paura. Forse il mio compagno sta piangendo, mi sembra di sentire un lamento. Fuori sta succedendo il disastro. Mi immagino che da un momento all’altro la tenda venga squarciata da una zampata di cane randagio. Sento che si azzuffano tra loro, lottano, ringhiano. Mi domando quando dura questo buio.
Sono le 4:03 e dal minareto finalmente il primo müezzin del giorno, la formula stabilita per chiamare i fedeli alle cinque preghiere canoniche tramite una cantilena fa eco nel villaggio e su tutte le colline intorno. È la nostra ancora di salvezza. In un lasso di tempo che non so calcolare i pastori si rimpossessano dell’altipiano e cacciano i cani lanciando pietre e bastoni.
Torna la luce sulla radura, ci aspetta una nuova giornata di viaggio e di sconfinato entusiasmo. Saltelli, rimbalzi e corse folli su e giù per le montagne per raggiungere poi colorati altipiani. Difficile, quasi impossibile fare autostop alle volte, stanchi, sempre inghiottiti in vortici di polvere da non permetterti di respirare. Ecco dall’altra parte del torrente apparire in lontananza una figura al galoppo del suo cavallo bianco. Sobbalza di continuo, vorremmo raggiungerlo, vorremmo dell’acqua, ma si perde in quell’immensità di colori, terra e pietre.
Ci incrociamo su un vecchio ponte di pietra scura. Un istante e stiamo già agitando entrambi le mani per augurarci buon viaggio e subito dopo per dirci addio.