Una storia attuale, ahinoi, e per questo indispensabile. Perché la memoria non ci lasci mai, nemmeno quando attorno a noi sembra crescere la voglia di non ricordare. O, peggio, di ricordare male.
Recensione di Davide Torri
Una storia attuale, ahinoi, e per questo indispensabile. Perché la memoria non ci lasci mai, nemmeno quando attorno a noi sembra crescere la voglia di non ricordare. O, peggio, di ricordare male.
IL MORO DELLA CIMA
Il nuovo libro di Paolo Malaguti Il Moro della Cima[1] comincia dalla fine, dalla morte dell’Agostino Faccin[2] detto il Moro Frun (Morofrun come si legge in alcune cronache del tempo). E poi, dal prologo-epilogo, si entra in una storia che, parafrasando il pensiero del Missiere, come il formaggio parte sempre dalle stesse tre cose, latte, caglio e sale, eppure, a dosare diversamente gli ingredienti e i tempi di stagionatura, i risultati sono infiniti. E il risultato dello scrittore padovano/trevigiano/bassanese è una storia portentosa che si legge senza affanno.
L’Agostino è una persona vera, uno che ha vissuto ai piedi della Grapa, malgaro, marito e padre, guida naif per i primi frequentatori della montagna, capanat[3], un libro tratto da una storia vera ma, per favore, non sollevate le sopracciglia ché lo scrittore non manipola il Moro per costruire una favola ad uso domestico. La gran parte di noi, di quelli che in montagna ci vanno anche se al Buon Dio (non) garbava farci montanari, ha un Faccin tra i propri ricordi personali: è il vincolo che ci fa avvicinare a questo romanzo. Il Moro è il vecio che incrociavamo, noi bambini, alla fontana del paese prima di salire il ripido sentiero, quella volta della narcisata, verso la cima del panettone verde; è l’omone che ci rincorreva con il forcone quando, con la prima morosa, si andava a schiacciare l’erba alta dei pascoli; è il veterano luddista, il giovedì sera alla sede del Cai, che guardava male il tuo paio di pantaloni troppo colorati. Ma, su tutto, il Moro siamo noi, noi che crediamo nella montagna, amica che non ci tradirà mai. Anche se poi, la vita, gli/ci dirà il contrario[4].
Il Moro della Cima è un romanzo con un attore principale e un coro che partecipa alla storia raccontata quanto il Faccin stesso: la sua famiglia, i preti, i malgari, i soci del Club Alpino Bassanese, il Too[5] e poi, i generali e i pitocchi della Grande Guerra, i primi fascisti. Nella prima parte del romanzo di Malaguti si intravede un Bildungsroman, a cavallo tra XIX.mo e XX secolo, nella seconda la scrittura si allarga e respira come in un paesaggio dalla cima della montagna.
L’autore con una lingua, l’italiano, maculata ma non frenata dal dialetto, mette in scena il grande imbroglio della Guerra, piccola o grande che sia, e la purulenta vergogna che viene da essa. Abbiamo già letto molto sulla Prima Guerra, sulla porca guerra, autori precisi e importanti ce ne hanno detto, tra questi oggi va aggiunto, dopo averci fatto conoscere i morti, i fantasmi, i commissari straordinari, i tenentini, i siori, anche Paolo Malaguti. Una lingua equilibrata, a volte dura, per dire che la guerra non è solo quando una cima viene presa e persa, presa e persa per giorni, (dove) chi viene falciato dalla mitraglia viene poi mutilato dalle granate e infine macinato dai grossi calibri ma è una violenza alle cose, alla Natura. E se non bastasse la guerra, gli anni successivi continuerà la trasformazione della Grapa[1] e saranno anni tossici per la povera gente pellagrosa, vestita di fustagno liso e dignità. Poveri che vedranno passare i milioni dei grandi appalti gestiti dal nulla dei politici, dagli schiamazzi degli interventisti, da chi la polenta ce l’ha nel piatto ogni giorno. E la montagna del Moro, la Grapa, muterà dal luogo dove trovare una rimescolata di sangue, una ciucca, una frenesia, la libertà alla linea del fronte, con le squadre di zappatori, le compagnie, i 18BL, le teleferiche, le gallerie e le gigantesche saette identiche a quelle che nelle chiese san Michele tiene in mano contro Lucifero. Un insensibile campo di battaglia che rovinerà in un cimitero a cielo aperto e infine in un gelido sacrario d’alta quota. Il Moro guarda e come tanti poveracci fa dei ragionamenti che tiene per sé o per Savoiardo, il suo musso. Sordo.
La gente (…) pareva accettare senza problemi che lassù fossero morte migliaia di giovani senza dire né ai né bai. E che per un anno avessero fatto saltare in aria tutto ciò che si poteva: cristiani, bestie, boschi, tutto in mona. Lui, Agostino Faccin detto il Moro, non potrà far finta che quello che era capitato, la guerra, la spagnola, le ruberie dei più furbi, il fascismo, sarà senza conseguenze. La costruzione del sacrario, del grande sacrario[2] proprio sotto la cima della sua Grapa, gli farà perdere il sonno perché, allora come oggi, i morti fanno più comodo dei vivi e rompono meno le balle.
È questa la parte del romanzo più disincantata, refrattaria alla retorica guerrafondaia, dove i capitoli dedicati alla costruzione del sacrario, proprio sulla Grapa, sulla montagna che il Moro e il Malaguti amano profondamente, sono i più aspri; eppure, più cari al lettore. Il sacrario era la tomba per migliaia di soldati. Ma era anche la tomba della montagna.
È bello sapere che il Moro sia davvero esistito ed è anche bello credere che le sue innocenti vendette, che i suoi fragili atti rivoluzionari, siano realmente accaduti e che la sua vendetta sia compiuta con l’orgoglio di chi sa pregare anche senza avere un vero Dio a cui rivolgersi.
Quale vendetta? beh, direbbe il Moro: leggete il libro.
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[1] Libro regalatomi da Laura Bortot, anche lei veneta, una persona che sa giocare con le lingue, appassionata di montagna, scrittura e amica di altitudini.it
[2] C’è, in fondo al libro, la foto di Agostino Faccin, detto Moro Frun: baffi a manubrio su un sorriso che non nasconde l’intelligenza e uno sguardo, socchiuso al sole che gli illumina il viso, che ha visto molto più di quello che ti vuol far credere. Dignitoso ed elegante, in posa come chi è abituato a farsi fotografare, con un gilè dai bottoni dorati e la catena d’argento dell’orologio che gli attraversa il petto come una onorificenza, mano al fianco a tenersi ben dritto e un pillbox di velluto appoggiato sopra la fronte a coprire i radi capelli grigi, il Moro è proprio come ce lo saremmo immaginato.
[3] il 22 agosto 1897 la Capanna Bassano fu solennemente inaugurata dai soci del Club Alpino Bassanese (non ancora sezione CAI ché tutto il mondo è paese anche 130 anni fa).
[4] Il Morofrun sa stupirsi sempre di fronte alla bellezza della Natura e al sublime della montagna, non teme la solitudine perché la sua è sempre gentile, buona, e il suo è uno sguardo romantico, capace di non aver bisogno di parole.
[5] Che belle le pagine, al centro del libro, dedicate agli ultimi momenti vissuti dal Moro con il suo cane Too: l’autore sicuramente ha, al suo fianco, un cane. Vide subito che Too gli stava dietro a fatica, e non correva avanti e indietro come al solito (..) Magari avrebbe potuto dirgli “bravo cane”, o grattargli il pelo dietro le orecchie ma lo faceva di rado (…) e così disse solo “ohi”.
[6] La Grapa, così come la Piave, al femminile perché feconda, accogliente, generosa diventerà (e ahinoi rimarrà) il Grappa, al maschile, luogo dove finanche con i morti e con le trincee si sarebbero fatti i quattrini e al Moro tocca un’amara constatazione: Quel piattume arido di sassi frantumati era il Grappa, non più la sua Grapa. Il Grappa, sì, adesso il maschile ci stava proprio bene (…) Era diventato quello che avevano cercato e voluto dalla guerra in poi. Il monte, il simbolo del popolo vittorioso, il sarcofago dei guerrieri morti nel fuoco e nel ferro.
[7] Sui sacrari, sui monumenti dedicati ai milioni di giovani che hanno perso la vita in una delle tante guerre da loro non volute ci si divide in due correnti di pensiero: chi li ritieni indispensabili per dare gloria ai morti, chi inutili, brutte architetture per lo più fasciste, messe lì da qualcuno, forse, pronto a riavviare la prossima guerra. Qualche anno fa, Pierre Lemaitre scrisse la storia di Albert ed Edouard, intercettando proprio l’esigenza di avere monumenti, inutilmente retorici, dedicati alla grande tragedia che fu la Prima Guerra Mondiale, in un libro romanzo molto francese da titolo Ci rivediamo lassù.
Autore: Paolo Malaguti
Editore: Einaudi, 2022
Pagine: 274
Prezzo di copertina: € 19,50
Dello stesso Malaguti sempre ambientato sulla Grapa dopo la prima guerra mondiale suggerisco anche “Sul Grappa dopo la vittoria” questa volta al maschile, un bellissimo libro ma più in generale tutti i libri di Malaguti.
Ciao
Bellissima lettura …ottimo consiglio !!!
Come tutti del resto
Da leggere tutto d’un fiato … e alla fine non veder l’ora di tornare sul Grappa (o meglio La Grapa) !
Un romanzo che ho molto apprezzato, letto d’un fiato, sofferto a seguire le riflessioni e gli stati d’animo del Moro davanti all’insensata violenza della guerra e degli uomini che usano la Natura, la profanano devastando la Grapa, questa divinità benefica, cancellata nella sua sacralità e trasformata in freddo monumento.
Scritto in una linguaggio accattivante, un italiano indurito da espressioni dialettali, imprescindibili ed efficaci nella loro scarna precisione e schiettezza.
lettura che consiglio vivamente!