Il traffico umano intorno al lago si muove in due direzioni, c’è chi va verso il rifugio e chi va verso le montagne: il monte Rondinaio, il monte Giovo e la linea di cresta tra i due. Al Lago Santo si incontrano persone diverse per intenti e capacità. Chi è lì per mangiare, in estate autunno e inverno, facendo poca o nulla fatica, ed esce a fare due passi dopo mangiato; chi scende dal crinale, stanco e affamato, si ferma sulla sponda e si lascia catturare per qualche istante, prima di cedere ai propri bisogni. Al Lago Santo la gente ritorna, per un pretesto o per un altro, in una sequenza di memorie in vesti rinnovate: il lago in estate, in autunno, in primavera e in inverno.
Mi dice che vuole essere chiamato Sergente Istruttore e subito dopo si mette a ridere. Ci dividiamo l’attrezzatura tirandola fuori dalle sacche che ha preso dal baule della sua macchina e adagiato a terra.
C’è qualche lingua di ghiaccio lungo la strada dal parcheggio al rifugio. L’asfalto è ora scuro e bagnato, ora grigio e sbiadito; l’acqua scorre, grosse bolle sfiorano la superficie del ghiaccio ostinato, poi scoppiano. Nelle zone assolate, il ghiaccio si scioglierà. L’acqua non troverà spazio per infiltrarsi nel terreno, rigelerà all’ombra col primo buio, secondo un disegno rinnovato.
Mentre questo va in onda, noi attacchiamo mani e piedi al ghiaccio del Canale Centrale al Monte Giovo. Uno scivolo sul lago. Un passaggio ripido e stretto, in ottime condizioni di percorribilità alla fine di un inverno parco di neve, tra due pareti di roccia diseguali, a destra più perpendicolare e sfuggente e a sinistra più adagiata, imperfetta. La parete di sinistra, permanente in un inchino di sottomissione alla parete di destra, offre alla neve superfici di appoggio, che aggettano l’una sopra l’altra come gradini, interrotti da stalattiti.
Hanno la stessa radice mancino e goffo, sinistra e maldestro. Vedi dunque che la narrazione della natura rispetta la narrazione della parola?
Devo accontentarmi di una visuale limitata della parete, poiché la prima sosta è attrezzata all’estrema sinistra, e lì restiamo ad attendere il nostro turno. Provo certe sensazioni che mi risalgono dai piedi, irrequieti e alleggeriti dal peso del mio corpo che scarica sulla corda cui è legato; sensazioni che mi cadono sul casco in forma di detriti di ghiaccio distaccati dai nostri predecessori. Il cielo cavalca la scollatura tra le due rocce e si macchia occasionalmente di pulviscolo bianco in contrasto al sole.
Sergente Istruttore mi mostra com’è facile avvitare e svitare una vite da ghiaccio, e mi invita a provare la manovra nell’angolino accanto a quello che lui stesso ha appena violato. Lo strato di ghiaccio che ci apprestiamo a risalire ha un colore uniforme e opaco, privo di bolle d’aria e di vita, risale sottile e snello la parete, senza spanciare in fuori. Io, l’inesperta da battezzare, salgo da seconda. Sergente parte e si sottrae alla mia vista. Continuo a percepire la sua presenza attiva attraverso le oscillazioni e i movimenti della corda che ci lega. Il ghiaccio è fatto di piccoli solchi e sporgenze che non posso vedere, ma solo sentire; non sento con le dita e le unghie, ma con le costole, la rotula, il perone.
Risalgo il primo salto di ghiaccio distanziando i piedi per allargare la base d’appoggio, facendo forza sulle piccozze. Sono un corpo estraneo e come tale mi comporto. Le pause tra i movimenti durano poco, in uno stato di equilibrio dinamico. Desidero essere la cosa più vicina possibile agli animali, quelli che hanno accesso alla fonte della conoscenza del movimento; però poi valuto continuamente la sensazione di equilibrio per cercarne una migliore. Non riesco più a identificarmi con il mio corpo per intero, perché non mi riesco più a vedere: sono così vicina al ghiaccio che non mi ci rispecchio nemmeno. Il ghiaccio schietto è insapore, giusto? Quindi appiccicare la lingua al ghiaccio è un modo per far esperienza senza il senso del tatto e della vista. In questo momento non sono più un corpo tutto intero, sono una lingua attaccata al ghiacciolo.
Gioco a far incollare la mia lingua sul ghiacciolo, perché io sono rimasta bambina per tutta la vita. Ma se ci faccio caso, il senso del tatto si trasferisce ad altre parti del mio corpo che premo contro la parete nel tentativo di scalarla. Il seno, un polpaccio, il tricipite: avanti così, a rotazione. Le mani stringono le piccozze e i piedi sono stretti dai ramponi, non entrano a contatto diretto con il ghiaccio. La corda tra me e il Sergente è bella tesa, io ho preso il ritmo e smarrito la paura di cadere. Carico tutto il mio peso su una gamba per sollevare l’altra, piegandola verso l’esterno. Assumo la stessa forma della corda tra me e il Sergente: per metà in caduta lungo la parte inferiore del salto, in ombra e perpendicolare al suolo, per metà estesa in uscita dal primo salto, adagiata al suolo. L’altezza del mio sguardo cade nel punto in cui poserò i piedi. Faccio forza sulle braccia, strattono le mie gambe sul pianoro oltre lo spigolo e ricompongo il mio corpo tutto intero.
Il ghiaccio ricopre appena una minima superficie del lago, scuro e quantomai vicino nella visuale dall’alto, da un punto che precede le due grandi vette. Attraverso il bianco-non-più-bianco traspare il colore blu dell’acqua, che ritrovo poco più in là e che emerge pienamente da alcuni sulla superficie ghiacciata: due occhi, una bocca spalancata, l’ombelico, un ciuffo di capelli, una mano in fuori; un fantasma.
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Racconto molto affascinante, suggestivo e interessante. Grazie ci hai spiegato con chiarezza e dovizia di particolari e ci hai trasportato in un mondo fantastico .