Racconto

LAGO SANTO MODENESE

"Ho voluto onorare un luogo che amo molto, e per farlo l’ho ripreso cambiando stile e stagione e «invitandolo a comparire in tutte le sue forme», come insegna l’epigrafe al testo"

testo e foto di Cecilia Lolli

26/03/2023
8 min
Non voglio più osservare il mondo,
ma invitarlo a comparire in tutte le sue forme. 'Peter Handke'

isolato, ma ricoperto di vegetazione e per questo motivo difficile da individuare a una prima occhiata casuale.

Ho scritto che i massi erratici non possono trovarsi dove sono se non perché il ghiacciaio, muovendosi, li ha depositati lì. Da qui in avanti i miei appunti si fanno sconnessi. Giaciture. Rocce tiltate. Crioclastismo. Block stream. Tutto convoglia verso un significato. Acque correnti superficiali; calanchi. Lo sdoppiamento di alcune cime è dovuto a una tipologia di frana chiamata deformazione gravitativa profonda di versante. Il significato di tutto questo è che l’Appennino è complicato sotto il profilo geologico. Nei pressi del Lago Santo è stata infine individuata una marmitta: anch’essa testimonia la presenza del ghiacciaio vallivo.

***

Circolano due leggende che spiegano l’attributo di santità del lago.
Sono due giovani innamorati che corrono e corrono, in fuga dalle rispettive famiglie; corrono sul ghiaccio sottile, la corsa e il tempo rallentano, i genitori si fermano tra gli alberi, sulle sponde, a guardare il lago che si apre e inghiotte i loro figli in un abbraccio eterno, mentre il ghiaccio sigilla il loro amore, puro e cristallino come l’acqua.
Oppure è un cacciatore, che insegue il lupo a cui ha inferto una ferita; lo insegue, preso dall’odio, e non risponde alla chiamata alla messa. Il lupo fugge attraverso il lago ghiacciato, il cacciatore gli è dietro, il cane si ferma a guardarli e resta lì, a vegliare il suo padrone morto e sepolto insieme al nemico, veglia fino all’arrivo del prete, che giudica l’accaduto una punizione per aver saltato la messa, e benedice le acque del lago.

***

Il traffico umano intorno al lago si muove in due direzioni, c’è chi va verso il rifugio e chi va verso le montagne: il monte Rondinaio, il monte Giovo e la linea di cresta tra i due. Al Lago Santo si incontrano persone diverse per intenti e capacità. Chi è lì per mangiare, in estate autunno e inverno, facendo poca o nulla fatica, ed esce a fare due passi dopo mangiato; chi scende dal crinale, stanco e affamato, si ferma sulla sponda e si lascia catturare per qualche istante, prima di cedere ai propri bisogni. Al Lago Santo la gente ritorna, per un pretesto o per un altro, in una sequenza di memorie in vesti rinnovate: il lago in estate, in autunno, in primavera e in inverno.

Mi dice che vuole essere chiamato Sergente Istruttore e subito dopo si mette a ridere. Ci dividiamo l’attrezzatura tirandola fuori dalle sacche che ha preso dal baule della sua macchina e adagiato a terra.
C’è qualche lingua di ghiaccio lungo la strada dal parcheggio al rifugio. L’asfalto è ora scuro e bagnato, ora grigio e sbiadito; l’acqua scorre, grosse bolle sfiorano la superficie del ghiaccio ostinato, poi scoppiano. Nelle zone assolate, il ghiaccio si scioglierà. L’acqua non troverà spazio per infiltrarsi nel terreno, rigelerà all’ombra col primo buio, secondo un disegno rinnovato.

Mentre questo va in onda, noi attacchiamo mani e piedi al ghiaccio del Canale Centrale al Monte Giovo. Uno scivolo sul lago. Un passaggio ripido e stretto, in ottime condizioni di percorribilità alla fine di un inverno parco di neve, tra due pareti di roccia diseguali, a destra più perpendicolare e sfuggente e a sinistra più adagiata, imperfetta. La parete di sinistra, permanente in un inchino di sottomissione alla parete di destra, offre alla neve superfici di appoggio, che aggettano l’una sopra l’altra come gradini, interrotti da stalattiti.

Hanno la stessa radice mancino e goffo, sinistra e maldestro. Vedi dunque che la narrazione della natura rispetta la narrazione della parola?

Devo accontentarmi di una visuale limitata della parete, poiché la prima sosta è attrezzata all’estrema sinistra, e lì restiamo ad attendere il nostro turno. Provo certe sensazioni che mi risalgono dai piedi, irrequieti e alleggeriti dal peso del mio corpo che scarica sulla corda cui è legato; sensazioni che mi cadono sul casco in forma di detriti di ghiaccio distaccati dai nostri predecessori. Il cielo cavalca la scollatura tra le due rocce e si macchia occasionalmente di pulviscolo bianco in contrasto al sole.

Sergente Istruttore mi mostra com’è facile avvitare e svitare una vite da ghiaccio, e mi invita a provare la manovra nell’angolino accanto a quello che lui stesso ha appena violato. Lo strato di ghiaccio che ci apprestiamo a risalire ha un colore uniforme e opaco, privo di bolle d’aria e di vita, risale sottile e snello la parete, senza spanciare in fuori. Io, l’inesperta da battezzare, salgo da seconda. Sergente parte e si sottrae alla mia vista. Continuo a percepire la sua presenza attiva attraverso le oscillazioni e i movimenti della corda che ci lega. Il ghiaccio è fatto di piccoli solchi e sporgenze che non posso vedere, ma solo sentire; non sento con le dita e le unghie, ma con le costole, la rotula, il perone.

Risalgo il primo salto di ghiaccio distanziando i piedi per allargare la base d’appoggio, facendo forza sulle piccozze. Sono un corpo estraneo e come tale mi comporto. Le pause tra i movimenti durano poco, in uno stato di equilibrio dinamico. Desidero essere la cosa più vicina possibile agli animali, quelli che hanno accesso alla fonte della conoscenza del movimento; però poi valuto continuamente la sensazione di equilibrio per cercarne una migliore. Non riesco più a identificarmi con il mio corpo per intero, perché non mi riesco più a vedere: sono così vicina al ghiaccio che non mi ci rispecchio nemmeno. Il ghiaccio schietto è insapore, giusto? Quindi appiccicare la lingua al ghiaccio è un modo per far esperienza senza il senso del tatto e della vista. In questo momento non sono più un corpo tutto intero, sono una lingua attaccata al ghiacciolo.

Gioco a far incollare la mia lingua sul ghiacciolo, perché io sono rimasta bambina per tutta la vita. Ma se ci faccio caso, il senso del tatto si trasferisce ad altre parti del mio corpo che premo contro la parete nel tentativo di scalarla. Il seno, un polpaccio, il tricipite: avanti così, a rotazione. Le mani stringono le piccozze e i piedi sono stretti dai ramponi, non entrano a contatto diretto con il ghiaccio. La corda tra me e il Sergente è bella tesa, io ho preso il ritmo e smarrito la paura di cadere. Carico tutto il mio peso su una gamba per sollevare l’altra, piegandola verso l’esterno. Assumo la stessa forma della corda tra me e il Sergente: per metà in caduta lungo la parte inferiore del salto, in ombra e perpendicolare al suolo, per metà estesa in uscita dal primo salto, adagiata al suolo. L’altezza del mio sguardo cade nel punto in cui poserò i piedi. Faccio forza sulle braccia, strattono le mie gambe sul pianoro oltre lo spigolo e ricompongo il mio corpo tutto intero.

Il ghiaccio ricopre appena una minima superficie del lago, scuro e quantomai vicino nella visuale dall’alto, da un punto che precede le due grandi vette. Attraverso il bianco-non-più-bianco traspare il colore blu dell’acqua, che ritrovo poco più in là e che emerge pienamente da alcuni sulla superficie ghiacciata: due occhi, una bocca spalancata, l’ombelico, un ciuffo di capelli, una mano in fuori; un fantasma.

***

La mia voce vi guida e in voi io mi rispecchio. Siete in ascolto al cospetto del lago. Nei giorni passati sono caduti pochi centimetri di foglie. È mattina presto, e vi risvegliate calpestando i sassi, nascosti sotto il fogliame, con la forza del passo in salita. State salendo da dove normalmente la gente scende, quindi scenderete da dove normalmente la gente sale. Uscite dal bosco per farvi strada in un vaccinieto, dove vi muovete di pochi passi in tutte le direzioni, girandovi attorno, lo sguardo rivolto alla punta degli scarponi, con cui spostate le fronde per svelare la presenza di rocce montonate, una spianata liscia sotto la suola, tracce del remoto ghiacciaio, quelle stesse rocce montonate che vedete nella loro interezza ai Campi d’Annibale, dove l’ombra delle vostre gambe si staglia sulla loro superficie. Intersecando e oscurando le spaccature e i licheni, come appiccicati all’ombra allungata a dismisura, così le vostre gambe sembrano tronchi di faggio. Ai Campi d’Annibale vi sparpagliate. Vi distraete dalla lezione, catturati dalle foglie rosso fuoco di due alberi solitari.

Al cospetto di un masso erratico mi prestate nuovamente ascolto. Il masso è percorso in superficie da spaccature parallele al suolo, soggetto nel tempo a cicli di gelo, disgelo e rigelo, la pressione dell’acqua infiltrata, divenuta ghiaccio, lo ha reso quello che potete vedere.

Siete saliti fin lì per disegnare una mappa geologica. Nello spazio di pochi chilometri avete osservato da vicino tutti i punti di interesse in programma, per ultima la marmitta, anche piuttosto piccola, dove tre foglie giacevano inerti nella fanghiglia. Con uno dei bastoncini ne avete saggiato la profondità e imitato il movimento centripeto dell’acqua e dei sassolini che l’hanno scavata, incontrato la resistenza del fango. Salite in vetta al Monte Giovo dove vi accoglie un vento freddo, nebbia in avvicinamento dalla vostra destra, vi fermate solo per riprendere fiato e per osservare le sponde del lago, oltre i vostri piedi, cariche di vegetazione rossa stretta nella morsa di una nuvola bassa. Scappate dall’aria fredda in movimento, correte giù a valle e prendete fuori il panino, comperato dal ristorante in apertura, inutilmente, con l’idea di mangiarlo in cima. Mangiate seduti sul muretto del ristorante in servizio, davanti alla gente che mangia seduta composta. Il lago scintilla a destra e s’incupisce a sinistra. Lo domina l’anfiteatro dei canali invernali, ancora nella sua veste autunnale: verde di erba, rossa di chiome e grigia di roccia. Il salto verticale della roccia è posto a confine delle macchie di alberi. A mezza costa, un traverso erboso risale in leggera pendenza fino a incontrare il cielo.

***

Ha nevicato tutta la notte sul lago ghiacciato. A valle, sui faggi di confine, la neve sfiora il marchio bianco e rosso del sentiero, tracciato a un’altezza di circa un metro e ottanta dal suolo. Il tronco scende nel manto nevoso. Intorno all’albero si apre un solco lasco, allentato; l’albero allontana la neve da sé, per rimanere a contatto con l’aria. I rami, imbiancati lungo la superficie non esposta alla forza di gravità, si tendono in avanti, verso di noi. I rami più alti scaricano neve sui nostri sci, zaini, caschi o berretti, in silenzio, la polvere nevosa si discioglie, inosservata, nell’aria bianca impregnata di nebbia. Fanno undici gradi sotto lo zero. Sulla superficie del lago, la distesa di neve ha la forma di tante piccole onde.

I sastrugi e le dune di neve ci indicano da che parte ha tirato il vento. Deve aver nevicato mentre tirava il vento. A me sembra che tiri ancora il vento. Anche Giulia, come me, si ferma. Mi indica un punto, tra gli alberi alla nostra destra, una macchia scura. Lingue di neve si sollevano verso l’alto, poi cadono alla rinfusa. Tutto è bianco, grigiastro, oppure nero per contrasto. Nel mezzo del bosco, dove gli alberi fanno ombra, la neve passa dal bianco al nero. La linea di confine è un tratto continuo di matita sulla superficie polverosa che si anima al suo passaggio. La neve non è inerte.

Penso di lasciarmi cadere e condividere con essa la mia sagoma in una buca soffice, ma la neve non me lo permette. Mi sospinge a una velocità controllata. Con questa neve, sciare in poco spazio, tra gli alberi ravvicinati, sembra cosa facile e spontanea. Il lago è completamente ghiacciato, e la sua presenza ci è nota e segnalata dall’ultimo albero che lo presidia e dal nudo pendio che termina sulla sponda del lago. Provo desiderio di calore e conforto; mi abbandono a una velocità controllata verso il rifugio che, in pieno giorno, ha acceso le luci oltre le finestre.

Cecilia Lolli

Cecilia Lolli

Ho studiato Lingue e mi sono successivamente specializzata in Traduzione. Nel tempo libero sono escursionista esperta e scialpinista della domenica,
di mestiere sono traduttrice, dall'inglese e dal tedesco, in vari ambiti specialistici, tra cui l'abbigliamento e l'attrezzatura per gli sport outdoor.


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1 commenti:

  1. Simo ha detto:

    Racconto molto affascinante, suggestivo e interessante. Grazie ci hai spiegato con chiarezza e dovizia di particolari e ci hai trasportato in un mondo fantastico .

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