Nessun sentiero, nessun segnavia, poche tracce di uomini e renne
Il Parco Nazionale del Sarek è un parco della Svezia, nella contea di Norrbotten; istituito nel 1909 fa parte della Lapponia svedese dichiarata Patrimonio Mondiale dell’umanità dall’UNESCO. Alte vette ricoperte da ghiacciai, circa cento, e profonde valli di anfibolite solcate da torrenti difficilmente guadabili. È una terra che si estende in basso ai piedi di grandi ghiacciai. Nessun sentiero, nessun segnavia, poche tracce di uomini e renne. Il vento quando soffia morde la schiena; nuvole che urtano contro pareti di roccia lì sostano, si incagliano e si guastano in pioggia.
Il paesaggio è penosamente grande e misterioso, a tratti sempre uguale. Perennemente sotto assedio dell’acqua. L’erba bassa come prato: salici e cipressi nani, rododendri medicamentosi al profumo di tenerezza, sanguinello, sugosi mirtilli selvatici e qua e là tra le zolle acqua che sbuca, risale al cielo e invade le caviglie. Lungo la cresta fin giù dalla cima, al di là della distesa rocciosa, li dove ci sono io a inseguire un’impronta di via lasciata dalle renne, sempre acqua; si insinua, non diserta neppure un centimetro quadrato di queste valli e mi costringe a procedere perennemente coi piedi in ammollo. Sono donna da carbonato di calcio, tutta quest’acqua che ristagna in superficie mi coglie impreparata.
La bellezza invade il cuore anche sotto la pioggia fitta; affondo inghiottita fino alle caviglie e la bellezza di nuovo prende a invadere il cuore. Sono ubriaca di libertà, a ogni passo bisogna superare l’indecisione di un acquitrino, la confusione di un pantano. Il sole sbuca, trapassa precisi varchi immaginari tra le creste, e poi si affretta di nuovo a coprirsi. Le riserve di umidità sembrano non avere mai una fine. La mia marcia un laboratorio di memorie. In acqua ci strascico i pensieri, e ora voglio un appoggio per sgravarmi anche un solo minuto dei 20 kg di zaino che porto con me. Occhieggio di nuovo spersa come su mappa, è sempre la stessa valle, ma oggi sul fondo ci sono anch’io.
Medito la resa, il riposo, la via di fuga che non trovo
Mi prende la paura di chi non diserta il vuoto assoluto perché, anche se attorno a me sembra non esista vita alcuna, la scena che ho di fronte calamita di forza i miei pensieri. E mi prende ancora paura al vociare di un fiume. Si lancia violento da un ghiacciaio appartato dietro un contrafforte di pietra poco più su; mi impressiono alla vista di quelle labbra verticali di roccia dagli orli di lama, quanta accuratezza e sufficienza di spazi.
Mi rovina tra i piedi l’acqua e mi chiude la via. Medito la resa, il riposo, la via di fuga che non trovo. La mente si vuota, sento il dolore degli spallacci; la valle tutt’attorno di un verde grigio mi appare bellissima. Ora devo procedere come Aladino sul bordo di un immenso, antichissimo tappeto dove il verde si intreccia al bruno scuro della roccia in una strana, inimitabile, monocorde architettura naturale con l’irriverente argenteo, poderoso filo dell’acqua a orchestrare la mia scena.
Mi libero del fiume e mi rinsaldo alla via. Qua e là fiori sconosciuti che bucano il tappeto. Sono a scuola di silenzi. Strana illogica pazienza la mia, pochi gesti, gli stessi: nel nulla d’improvviso di nuovo la mia tenda e l’acqua di torrente in cui mondarsi di pensieri; poi, al riparo, indulgenza di cibo mentre si fa conta di chilometri e giornate, e un diario che rinfranca come dialogo con un amico. Tutt’attorno mi risponde in egual modo il mondo: ogni sera si ritira ingoiato dalla nebbia.
Nella fiacchezza delle ore di riposo che mi si offrono davanti mi preparo all’imprevisto e all’inatteso del giorno dopo; dispongo la mia mente ad affrontare con grande calma un inciampo di piede, di direzione, o solo l’umore che stramazzerà a terra sfinito. Sono differente dai Sami che hanno vissuto queste terre millenni, cerco in tutti i modi di proteggermi dall’ignoto e dagli assalti del fato. Il temporale fuori svanisce, un vento benevolo si alza e asciuga la tenda.