Alzai lo sguardo dalla strada innevata che separava in due il fitto bosco dei larici e tentai di fissarlo sullo specchietto retrovisore che tremolava ai sobbalzi della Bugatti avuta in prestito, per l’occasione, da un collega del giornale; facoltoso, monarchico e gran cacciatore di zitelle della borghesia torinese più defilata ma, per questo, più danarosa.
Un po’ di sudore agli angoli degli occhi i pulviscoli di terra ghiacciata entrati dentro contribuivano a rendere più difficile la messa a fuoco.
«Che c’è!”, chiesi di nuovo e con maggior veemenza, facendo roteare gli occhi dallo specchietto alla strada, per via dei due tornanti secchi in arrivo. Avevo fretta, non potevo certo bucare l’appuntamento, ma dovevo essere prudente, accidenti all’inverno che arriva sempre senza farsi annunciare, silenzioso e bianco.
Anna non rispose. Tentò di sorridermi, notai con la coda dell’occhio. Era pallida e sudava nonostante il freddo. Forse le avevo comprato il vestito nuovo troppo accollato. Accanto a lei, sul sedile posteriore, Franklin Delano Roosevelt, detto Frank per comodità nel richiamo, stantuffava alito a ritmo sostenuto, con gli occhi chiusi e cisposi e la lingua ormai quasi bianca e rugosa.
Anna aveva undici anni ed era mia figlia. Sua madre era morta sei anni prima e lei aveva vissuto buona parte della sua infanzia con i nonni, a Roma, e un po’ con me, quando il giornalismo nomade attraverso le province del nord ovest italico subiva fortunosi attimi di sosta.
Ora, però, anche per me la situazione stava per cambiare.
Frank era un golden retriver che mi aveva regalato due anni prima, al mio ritorno dagli Stati Uniti dove avevo seguito vari avvenimenti, comprese le elezioni presidenziali, una signorina di buona famiglia biellese con la quale avevo avuto una relazione lunga e, credevo, solida. Invece non lo fu poi tanto. Si innamorò di un altro (quando me lo disse lo avevo capito già dalla premessa: «Non ci sei mai quando ho bisogno”) e non ci furono neanche tanti convenevoli. Semplicemente non si fece più viva e Mister Roosevelt era tutto quel che mi rimaneva di lei.
«Babbo… mi viene da vomitare”, disse Anna in un perlage sempre più fitto di sudore. Lo disse in un fiato crescente. Alzare gli occhi al cielo, imprecare e poi pentirsi, schizzare dalla macchina fu un tutt’uno.
Mister Roosevelt, piuttosto eccitato per l’aria fresca e l’inaspettata libertà, saltò giù come un felino, nonostante la stazza e l’indolenza, quasi travolgendo Anna.
Lei scese lentamente.
Rimase per un po’ con le braccia conserte e gli occhi acquosi a fissare i vapori che salivano dal sottobosco, per via del gelo che aveva passato la notte acquattato tra ramaglie e cespugli e adesso cercava di disperdersi nel sole. Poi piegò leggermente il busto in avanti e vomitò. Con molta dignità.
«Scusami babbo», disse poi, «sono emozionata».
Mi intenerì, con questa sua giustificazione; forse non sapeva neanche bene il significato di emozione.
«Non potevi fare tutto prima, quando ti sei fermata a fare pipì?”, le chiesi cercando di scherzare.
«Ma non mi veniva», rispose seria.
«Stai meglio?». Poi, senza aspettare risposta, avevo aggiunto, «torna in macchina che è tardi». Mi misi a fischiare per richiamare Frank, subito partito alla ricerca di qualche capriolo nel bosco, con cui ingaggiare una gara da perdente, un inseguimento di breve durata. Un vezzo, più che una caccia.
Il cane tornò subito e saltò dietro con la solita irruenza, finendo in grembo ad Anna che rise e lo accarezzò. Era andato a bere in una pozza e c’era pure entrato dentro. Le gocciolò acqua e fango sul vestito, sul quale avevo già fatto finta di non notare alcune tracce di saliva. Ma così era davvero impresentabile.
Un saluto ad Anna e Frank.