Ci chiediamo ogni giorno come riusciate a cavarvela, lassù, con le vostre famigliole, con i bambini che avete adottato (la piccola Thyda, Musa e Zilan… ovviamente cito i loro nomi grazie alla memoria di vostra madre) prima di lasciarci. Ci ostiniamo a scrivervi nonostante il vostro silenzio, poiché vi immaginiamo alle prese con la lotta quotidiana per la sopravvivenza, sebbene vi troviate in un luogo indubbiamente più riparato rispetto a questo. Ci conforta non poco, il sapervi al sicuro in quell’abitazione ricavata all’interno della vecchia stazione della seggiovia, dalle pareti certamente più robuste delle lamiere che vi avevano accolto al vostro arrivo. Sappiamo che non fu facile, all’inizio, e che le circostanze vi spinsero ad accantonare i vostri buoni principi in qualche occasione, ma era l’unica via per trovare una sistemazione decente. È questo che conta, tutto sommato.
Vi pensiamo sempre, sapete? Le fotografie di quando eravate bambine, di quando eravamo una famiglia, sono quasi consumate, per quanto le abbiamo maneggiate e accarezzate, la mamma e io. E fortuna che ne avevamo stampate a centinaia, i primi anni, perché altrimenti non sarebbe rimasto nulla di quella spensieratezza. I bauli e le cassapanche con i vostri cimeli, sono rimasti giù, a casa; sperando che i saccheggiatori non siano mai entrati per fare razzia, e vedendo dall’oratorio che il paese non è ancora stato toccato dall’incendio, mi riprometto sempre di scendere e recuperare qualcosa, ad esempio i costumi di carnevale che la mamma vi cuciva quando andavate a scuola. Ricordi quel costume da civetta, Dafne cara? Era il ’17, mi suggerisce tua madre… ti eri rifiutata di sfilare insieme agli altri; come Irma, hai sempre voluto fare di testa tua, in fondo avevate ragione. Ma forse corro troppo con la fantasia, non mi rassegno ancora al fatto di aver compiuto cent’anni l’estate scorsa. Oltretutto, dovrei chiedere un lasciapassare al Commissario di zona per spostarmi da qui, e non è detto che lo otterrei senza avere qualcosa da offrire in cambio: rape e topinambur bastano appena per noi, non si vede un biacco da almeno un anno. E c’è dell’altro: zoppico maledettamente da un paio di mesi, cioè da quando un contagiato, venuto da fuori, mi ha aggredito per entrare in casa. Doveva essere un maschio sui quaranta, praticamente cieco e deforme come gli altri; è stata la mamma, stavolta, a neutralizzarlo con la roncola, ma ormai quello mi aveva azzannato al ginocchio sinistro. Vostra madre ha poi avuto il suo bel daffare, per evitare che la ferita facesse infezione; certe radici non si trovano più facilmente, come un tempo. Non abbiamo informato le guardie, ché stavolta mi avrebbero portato giù con gli altri per evitare un nuovo focolaio. Per ora sto bene, dolore a parte. Mi dà un certo conforto la preghiera.