Mi affido al sibilo leggero del vento, ai raggi mattutini del sole quando, da est, fa capolino al di sopra delle mie creste, oppure al rosso vivo del tramonto che sovente sembra imporporare di sangue la mia vetta.
Non mi senti.
Diciamo che hai perso l’abitudine ad ascoltare.
Non hai più tempo per accorgerti di quello che sta accadendo attorno a te, preso come sei da te stesso.
Pensi di essere il centro del mondo e persino dell’universo, ne sei così sicuro che sei arrivato a dire che io non sono viva. Anzi, negli ultimi anni – per me significa duecento, duecentocinquanta, sono piuttosto antica – hai iniziato anche ad appiccicarmi mille aggettivi.
Mi hai chiamato ingrata, matrigna, persino assassina.
Non mi senti è vero, a quanto pare, hai perso la capacità di aprire il cuore, perché certe cose non si sentono con le orecchie ma si ascoltano con il cuore.
I tuoi bisnonni, forse trisavoli, ascoltavano bene la mia voce, addirittura mi temevano. No, non avevano paura di me, mi temevano perché mi consideravano VIVA.
Erano grati per tutto quello che potevo offrire loro: i frutti per sfamarsi, mirtilli, fragole, lamponi, funghi e tutte le erbe selvatiche da mangiare e per curarsi.
Erano grati per il legname che prendevano da alberi secolari, sapevano quali tagliare per non lasciare mai troppo spoglio il mio fianco.
Cacciavano gli animali che da sempre hanno trovato riparo negli anfratti che ho creato per loro: gli orsi, i cervi, i caprioli, gli stambecchi, i camosci per non parlare delle volpi e delle lepri, dei furetti e delle marmotte.
Arrivavano, i tuoi antenati, fin dove i mughi coprivano il fianco, più su non osavano. Avevano un religioso timore, una sorta di paura per ciò che avrebbero potuto trovare.
Le altezze, si sa, non sono fatte per l’uomo ma per le divinità, è questo che pensavano.
Ascoltavano, i tuoi avi, i segnali del cielo: le nuvole che prima di riversare acqua alla pianura inanellavano le mie cime, dalla loro disposizione i vecchi sapevano se dovevano raccogliere il fieno oppure no.
grazie a Lucia Castelli per l’apprezzamento a questo articolo, un abbraccio
Bella e interessante la chiave di lettura sul nostro egoismo nei confronti dei monti, toccandone varie sfaccettature.
Da friulano ho apprezzato anche il riferimento a Kugy,
Mandi
Grazie Luca,
da innamorata delle mie Dolomiti e di Forni non posso che apprezzare il tuo commento.
Un caro saluto
Paola
Mi pare un tema aperto questo del rispetto della montagna, ancor più per quello che hanno in mente di fare a Cortina, o per quanto succede o è successo con gli impianti di risalita, lo sfruttamento della montagna in genere, l’averla trasformata in un parco divertimenti privo di contenuti.
Vedere la luce che sta in alto è difficile, ci vuole volontà ed esercizio, e poi, si sa, tutto cade, e quindi, mano a mano che si scende la “materia” viene depurata distillata e in fondo restano gli scarti, gli imperfetti che siamo noi umani.
Forse l’uomo è appunto lo scarto di questo processo che necessariamente sta in basso con l’arroganza di andare in alto, ma non per capire ed elevarsi, ma per conquistare e distruggere.
Giusto quindi porre questa domanda che richiede una risposta aperta, multipla, un salto antropologico che riporti l’uomo a essere umile e non miope.