Saggio

SEMANTICA DELLE CROCI DI VETTA

L’assurda polemica delle croci di vetta, nata dalle parole di Marco Albino Ferrari (ex direttore editoriale del Cai), che non ha mai detto di togliere e l’indignazione strumentale di alcuni politici che ne è seguita, evidenzia ancora una volta come il tema della religione, in un Paese laico, sia un nervo scoperto nel mondo politico. Ma lascia ancora spazio a una riflessione sul tema.

testo di Ledo Stefanini

Foto di Bob van Aubel su Unsplash
13/07/2023
6 min
Per parlare di un tema che di recente è stato assunto a pretesto per l’ennesima polemica è necessario delimitare il campo spazio-temporale.

Il fatto che i monti fossero nell’antichità – e siano tuttora – sede degli dèi, che Mosè abbia ricevuto le Tavole della Legge sul Sinai, ecc., tutto questo rimane fuori dai confini che ci siamo assegnati: le Alpi dell’alpinismo. Per i gentiluomini, in gran parte inglesi e tedeschi, che frequentavano le Alpi fino alla Grande Guerra, il problema delle croci non si poneva. Tra loro non mancavano i religiosi come il Rev. Arthur Guy Raynor (1885-1935), pastore anglicano, o Victor W. von Glanvell (1871–1905), docente di diritto ecclesiastico; ma dai loro scritti non emerge alcuna indicazione che non sia quella del senso del sacro evocato dalla grandiosità della montagna.

E certo mai la tentazione di segnare con una croce il raggiungimento di una vetta, non per rispetto del monte – la cerimonia che seguiva il raggiungimento della cima era la costruzione di un ometto di sassi più o meno grande, sotto il quale veniva infilata una bottiglia a conservare un biglietto da visita -; ma perché l’erezione di una croce era estranea al bagaglio culturale sia delle guide che dei signori. D’altra parte, quelli erano tempi in cui i protestanti non erano ancora “fratelli separati” dei cattolici e allo scopo basti ricordare che Ludwig Norman -Neruda, caduto sui Camini Schmitt nel 1898, venne seppellito fuori delle mura del cimitero di Ortisei.

Gli scritti degli alpinisti dell’epoca vittoriana illustrano l’esperienza di un “misticismo alpino” e non nascondono una sorta di benevolo compatimento nei confronti dell’ingenua religiosità degli abitanti delle valli alpine, connotata spesso da una vena di ipocrisia. La conquista delle cime delle occidentali, a partire dalla Gran Becca di Edward Whymper nel 1865, e delle Dolomiti non fu accompagnata dall’erezione di croci, nonostante una componente mistica fosse spesso presente in quelle imprese. Scriveva Arnold Lunn, prima metodista e poi cattolico, in relazione alla sofferenza legata all’alpinismo, che «Non vi è sport che illustri più perfettamente il principio ascetico che la felicità va pagata con la sofferenza e che il grado di felicità è in proporzione al prezzo pagato.» [A. Lunn, Mountain Jubilee, 1943].

La tentazione di segnare con una croce il raggiungimento di una vetta era estranea al bagaglio culturale sia delle guide che dei signori. 

Non era quindi la carenza di senso religioso che determinava, per quegli alpinisti, la mancanza di significato del gesto di alzare croci sulle vette, quanto piuttosto una cultura diversa. Non bisogna dimenticare poi che tra gli iscritti all’Alpine Club (fondato nel 1857) e al Deutscher und Österreichischer Alpenverein (fondato nel 1872) i religiosi rappresentavano una cospicua frazione; nonostante ciò, a scorrere le pubblicazioni del tempo, non vennero mai proposte erezioni di croci. Se mai le cime recavano i segni di fortissime le rivalità nazionali, sezionali e personali, espresse da ometti di pietre, biglietti da visita, scritte sulla roccia e, infine, anche bandiere; ma non croci. All’opposto del significato che il monte ha nelle Sacre Scritture, sono gli uomini a salire sulle vette e non la divinità a materializzarsi su di esse.

Non tutto, ma molto, cambiò con la Grande Guerra. Decine di migliaia di uomini dovettero imparare a salire sui monti e apprendere l’arte di sopravvivere in un ambiente ostile. Impararono anche che sulle cime dolomitiche e su quelle innevate dell’Adamello e dell’Ortles era possibile trascinare mitragliatrici, riflettori e persino pesantissimi cannoni, utilizzando teleferiche e vie ferrate. Vette dolomitiche che prima della guerra erano viste come riservate ad una ristretta cerchia di personaggi dotati di coraggio e risorse economiche, si resero accessibili a schiere di uomini di basso ceto sociale, cosa che contribuì fortemente a diffondere la pratica dell’alpinismo fra ceti impiegatizi e operai. Ma neppure questo bastò a diffondere l’elevazione delle croci di vetta.

A questo punto è necessario definire precisamente ciò di cui parliamo. Non è vero che le croci che si trovano in montagna siano testimonianza di una sola inequivocabile forma di pietas religiosa. Bisogna distinguere. Sui passi erbosi, talvolta sedi di alpeggi, in quanto ricchi di pascolo, si trovano in prevalenza crocifissi rozzamente scolpiti in legno di cirmolo, non di rado segnati dagli eventi atmosferici. Richiamano atmosfere alpestri alla Segantini, con i pastori che interrompono la fienagione, chiamati all’angelus dal suono delle campane che, dalla chiesetta di fondo valle, giunge fino agli alpeggi. Testimonianza di un sentimento religioso ormai perduto; ma che continua a toccare il cuore dei passanti.

Diverse sono le croci di vetta, che pure si potrebbero distinguere in diverse sottospecie. La classica croce di vetta è caratterizzata da una robusta struttura metallica con un’altezza che supera i due metri, saldamente ancorata al terreno da una base di calcestruzzo. Il traliccio che ne costituisce la struttura portante può essere nudo o anche rivestito di lamiera anodizzata, che la rende ancora più visibile da valle. Fra i motivi che spiegano l’assenza del Crocifisso vi sono probabilmente le dimensioni e il fatto che una tale struttura, collocata su una vetta, è esposta all’azione dei fulmini. Un’altra peculiarità è la presenza, alla base, di una piastra metallica sulla quale sono incisi il nome della società promotrice e la data dell’inaugurazione. Non mancano i casi in cui la struttura ha richiesto più interventi di ripristino, a causa delle folgori o di eventi atmosferici particolarmente disastrosi.

Foto di Birgit Sindermann su Unsplash
Foto di Chantal & Ole su Unsplash

Non è raro trovare lunghi festoni di lung-ta (bandierine di preghiera buddiste), ai quali le croci stesse fungono da sostegno. Come direbbe il compagno Mao, “grande è la confusione sotto il cielo”.

Le nude croci di vetta sono quindi ben distinte dai crocifissi che si trovano sui valichi di media montagna. La cosa è spiegabile non solo con le difficoltà che si incontrano a collocare croci di grandi dimensioni in alta quota o su picchi dolomitici di arduo accesso; ma soprattutto con il diverso significato che i promotori attribuiscono all’impresa. I crocifissi di media quota erano ispirati da profonde motivazioni religiose; le grandi croci metalliche vogliono essere segno della capacità delle associazioni che hanno provveduto alla loro collocazione; reso esplicito dal cartiglio metallico che riporta il nome della società alpinistica, non sempre leggibile sotto le numerose insegne di club che vogliono lasciare segno del loro passaggio, più che di devozione.

Infine, vi è da osservare che le croci di vetta hanno storie molto più brevi di quelle dei crocifissi, per il motivo banale che le vette dolomitiche si sono cominciate a raggiungere poco più di un secolo fa e l’idea di collocarvi una croce è ancora più recente. All’uopo occorre una vetta ben individuabile, sia per il nome che per la collocazione, che sia di accesso difficile, ma non troppo; tale cioè da giustificare il nome di “impresa” attribuito all’opera di portare in vetta e installarvi la struttura metallica. L’avvento della possibilità di trasporto mediante elicottero, anziché favorire, ha decretato la fine della diffusione delle croci di vetta; perché ne ha cancellato il significato invalso fino a qualche decennio fa. Infatti, cercare volontari per il trasporto di componenti della croce è cosa diversa dalla ricerca di fondi per affidare l’installazione ad una ditta specializzata in costruzioni alpine. Ma non sarebbe bastato questo a decretare la fine delle croci di vetta; quanto piuttosto il fenomeno sociale della banalizzazione della montagna, determinata da massicci fenomeni di sfruttamento a pieno titolo industriale.

Se ancora alla fine dell’800 il raggiungimento della vetta della Marmolada o del Catinaccio era impresa che richiedeva una lunga preparazione e una buona dose di rischio, tanto da segnare una vita, oggi di tutto questo non è rimasto più nulla. Strade, impianti di risalita, rifugi sempre più confortevoli hanno banalizzato il raggiungimento di molte cime una volta riservate ad alpinisti di valore. Il drago di cui si preoccupava Messner ai primi degli anni ’70, riferendosi all’arrampicata, se non morente, ormai è defunto e il dibattito sulle croci di vetta ne è testimonianza. Sulle vette dotate di croce d’ordinanza, non è raro trovare lunghi festoni di lung-ta (bandierine di preghiera buddiste), ai quali le croci stesse fungono da sostegno e che si trovano in vendita nei migliori negozi di materiali alpinistici.

Non conosco il pensiero dei teologi – non ne conosco che siano anche alpinisti – ma per l’alpinista medio è un’usanza che complica ulteriormente il problema di interpretarne il messaggio. Come direbbe il compagno Mao, “grande è la confusione sotto il cielo”.

Foto di Sandra Grünewald su Unsplash
Ledo Stefanini

Ledo Stefanini

Docente di fisica all'Università di Pavia (sede di Mantova), studioso di storia dell'alpinismo.


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8 commenti:

  1. DAVIDE TORRI DAVIDE TORRI ha detto:

    Ledo (e altitudini) si conferma capace e lucido nell’affrontare un tema che, come ormai spesso accade, ha dato spazio sul web e non solo a fanfaronate di ogni tipo. Aggiungo una piccola postilla ricordando il Buddha sul Badile di una quasi ventina anni fa: una azione che rendeva ridicola già allora tutta questa inutile querelle.
    Bravo Ledo che hai contribuito a definirne i contorni con la tua scrittura chiara e leggera.

  2. Vittorio Vittorio ha detto:

    Ringrazio il Prof. Stefanini per l’approfondimento svolto che parte dall’assunto che si tratta di una polemica pretestuosa e costruita ad arte, ma mi permetto di aggiungere delle considerazioni più generali che riguardano come sia cambiata, in peggio, la nostra società, non più in grado di ospitare e promuovere la fraternità tra gli uomini, la solidarietà, il sentirsi parte di un storia comune basata sulla pace.
    Credo non basti dire che nessuno vuole togliere le croci, come ha fatto il CAI, serve aggiungere che siamo vittime di una informazione distorta che sta manipolando ogni giorno la testa delle persone mettendole le une contro le altre, anzinché promuovere lo spirito ecumenico che ci vede tutti figli della stessa terra.
    Un esempio per tutti è stata la Via Crucis del 2022 al Colosseo quando un Papa, che ama la terra, si è permesso di far portare la croce a una donna ucraina e una russa. Uno scandalo rimbalzato a livello planetario: il Papa non si riconosce nell’ordine dell’impero e trasgredisce alle sue regole brandendo la croce.
    Ma di chi è quella croce?
    Dei giornalisti incapaci e servili che manipolano la realtà e rendono stupidi gli uomini con il loro servizio?
    Dei politici senza nervo che se ne infischiano della nostra Costituzione e manipolano e promuovono la guerra, la divisione, la sofferenza?
    Della povera gente che quella croce la porta tutti i giorni e nella quale magari trova anche conforto, fosse anche una bandiera della preghiera tibetana?
    L’uomo è diventato intollerante, aiutato e spinto dai media (la guerra in Ucrania lo mostra tutti i giorni), e non è più in grado di accettare la diversità che è la ricchezza della montagna, della vita, dello stare insieme comune, ma ancor più di ogni animo umano sensibile dotato di sentimento e ragione.
    Del resto, il grano e la zizzania convivono senza problemi, come le croci sulle vette convivono con la nostra storia, il nostro paesaggio, la nostra cultura.
    Il problema nasce quando qualcuno, l’impero della cultura del quinto del mondo benestante vuole estirpare la zizzania rappresenta dai 4/5 del mondo che fatica.
    Estirpare, che parola orribile.
    Questo è il tema, perché con questo obbiettivo stampato nella testa, ogni situazione, attraverso la retorica pervasiva dell’informazione “pubblica” viene artefatta e portata a pretesto per una crociata alla carta, come sui poveri migranti.
    Del resto, piccoli uomini, piccoli pensieri.
    Il dato triste, “conclusivo”, è stato a mio avviso la decisione del CAI di scusarsi con il Ministero per una cosa che non aveva detto o promosso. Ho letto questo non tanto come un tentativo di ricomposizione della vicenda quanto piuttosto un rientrare rassegnato, e forse convito, nei ranghi di quel pensiero unico che brevemente ho provato a descrivere.
    Divisiva non è la croce, è l’uomo.

  3. Grazie per questo bellissimo articolo, aiuta a ricomporre la storia, purtroppo molto spesso sconosciuta ai più.
    Come alpinista mi sento di sottolineare che le croci non sono il tema, il tema forse è la comprensione dell’esperienza che senza dubbio trascende la percezione umana. Si sale e si va incontro all’ignoto, ogni passo, ogni gesto viene affidato alla tua esperienza ma anche a qualcosa d’altro. Non occorre essere credenti per capire che c’è una dose di mistero in ogni salita e l’appagamento della vetta raggiunta lascia, nella stragrande maggioranza dei casi, spazio alla meraviglia del creato e alla grandezza della montagna stessa. La croce sta lì così come un ometto, ma è quello che accade dentro il cuore (per dirla in termine ebraico) che fa la differenza. Chi accende polemiche in questo senso lo fa per speculare, una volta in più.
    Più silenzio e contemplazione sulla meraviglia che la montagna può regalare, più silenzio e meditazione potrebbe aiutare.
    Come sostiene un proverbio arabo “Se ciò che dici non migliora il silenzio…non dirlo!”
    Grazie prof.

    1. Livio Volpi Ghirardini ha detto:

      Grazie anche a Lei, Paola, per il felice commento che integra il limpido approfondimento dell’amico Ledo su un tema caro a chi frequenta la montagna ma, non per questo, noto a tutti, essendosi sedimentato nel tempo durante differenti stagioni ed oggi pure travisato. Mi sorge il dubbio di non aver migliorato il silenzio!

  4. Giovanni Margheritini ha detto:

    Grazie Ledo. Hai ricomposto una assurda vicenda che ha veramente devastato la credibilità dei tanti soci CAI messi di fronte a una presa di posizione del PG del tutto fuori luogo.

  5. Livio Lupi ha detto:

    La montagna è ineffabile, metafora della vita, lotta per la libertà, esperienza assoluta, e come tale merita tutto il nostro rispettoso silenzio.
    L’Alpinismo UNISCE oltre i confini umani di lingua o religione.
    Perché polemizzare, dividere, seminare zizzania su tutto?

  6. mario ferrazza ha detto:

    Lasciamo quelle che già ci sono e non mettiamone altre altrimenti filosofeggiare attorno a questioni come questa, formulare sterili sofismi, fa dimenticare i veri problemi dell’ambiente montano e della gente che ancora vi risiede.
    Saluti, Mario

  7. Maurizio Malaghini ha detto:

    Grazie per l’approfondimento. Sono certo che chi voleva fare polemica avrebbe difficolta a leggere l’articolo dall’inizio alla fine traendone un senso. Rimango stupito dalla dichiarazione ufficiale del mio Presidente Generale.

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