Il sentiero di infilava subito su per un bosco fitto e ombroso. Faceva freschino. Pensai di coprirmi meglio e partii.
Il Kumano Kodo è un antico pellegrinaggio sacro, paesaggisticamente bellissimo, ricco di storia e suggestioni. La mia speranza era di ritrovare le sensazioni che il giovane me stesso aveva vissuto sul Cammino di Santiago parecchi anni prima.
Proprio per un cazzo. A metà della prima salita, tutta sassi e radici, già mi pentivo di non essere in un Izakaya a scolare shochu e sakè. Negli anni, la mia condizione fisica era un tantino peggiorata. Sudato e ansimante, circondato da una vegetazione che minacciava monotonia e troppa familiarità, non ero più così convinto di passare sei giorni su una montagna. Brutte parole come sprecare, perdere, rovinare, tentavano d’infilarsi in ogni pensiero. Non c’era voluto molto per ritrovarmi tra le sinapsi l’ultimo sentimento che mi sarei aspettato di provare: delusione.
Poi è successo qualcosa. Cosa, di preciso, sto ancora cercando di capire mentre scrivo.
Ricordo l’inizio del sentiero come un cambio netto di paesaggio, un sottosopra di elementi che forse, col tempo, è diventato anche mentale. Se la strada, là in fondo, mi aveva permesso di camminare a testa alta guardandomi intorno con la leggerezza del turista, la salita mi aveva tirato giù e schiacciato a terra, occhi e gambe, obbligato al presente, al respiro, alla fatica. Di colpo.
Credo che la mia testa sia entrata nella montagna diverso tempo dopo aver mosso il primo passo. Probabilmente, in quel momento, dovevo ancora sbarcare dall’aereo.
Insomma, ero lì e non ero lì. L’approccio con Osaka mi era sembrato buono: i ciliegi in fiore, gli inchini, le lampade dei locali nei vicoli, le sopraelevate, il sushi. Direi scontato ma, in qualche modo, lontano. Di tutto quel vedere avevano goduto gli occhi. Il resto del corpo seguiva a rimorchio. Non c’era sorpresa. Le emozioni non erano piene, direi neanche tanto originali. Forse, dopo anni di anime, fumetti, film e libri, ero sin troppo preparato, quasi protetto da una conoscenza così vasta da ridurre una distanza culturale enorme.
Grandissima cazzata. Non conoscevo neanche gli umeboshi. Certo, mi avessero paracadutato nel mezzo della Papua Nuova Guinea avrei avuto emozioni più forti ma non era quello il problema.
C’è una storiella zen, un koan, che spiega la mia condizione: un tipo si presenta da un grande Maestro giapponese. Il Maestro lo fa accomodare e gli prepara il tè. Il tipo fa un sacco di domande, vuole sapere tutto. Il Maestro lo ascolta e intanto versa il tè. Il tipo continua a chiedere e il Maestro continua a versare fin quando il tè trabocca dalla tazza bagnando il tavolo e i pantaloni del chiacchierone. Ma perché? – chiede quest’ultimo. La tua mente – dice il Maestro – è come questa tazza di tè.
In breve: avevo la testa piena di troppe minchiate per godermi il viaggio.
Dall’Ebisu Bridge avevo guardato il podista luminoso di Dotonbori come fossi stato davanti alla TV o a un post di Facebook. Credevo di aver camminato per le vie di Osaka ma non avevo fatto altro che scorrere la città col dito, senza toccarla davvero. Avrei potuto fare altrettanto dal divano.
Pagai quella distanza in cima alla prima salita, ansimante e con gli occhi sbarrati come appena risvegliato da un incubo.
Ancora non capivo cosa mi stesse succedendo ma continuai a camminare.
Kumano è sempre stata considerata una regione di grande forza spirituale in cui gli dèi abitano l’essenza stessa del paesaggio naturale. Io guardavo le statuette jizo e i tempietti shinto, sulle tabelle di legno leggevo di leggende e del passaggio di personaggi storici ma restavo uno spettatore col fiatone.
Volevo, come ogni romantico (e ogni ingenuo), essere parte del Kumano Kodo. O renderlo parte di me. Ma per quanto camminassi restavo fermo, per quanto entrassi nella montagna ne restavo fuori.
Come prigioniero di una soglia.