Saggio

Di chi è la montagna? #8

Sono sicura che i camosci abbiano letto i saggi del filosofo Roberto Marchesini e che tengano in grande considerazione la portata che l’ospite può avere. La montagna è loro.

testo e foto di Daniela Zangrando

23/05/2020
7 min
Ho provato a rispondere a questa domanda difficile: di chi è la montagna? Ne è uscito un testo che parla delle montagne, certo. E di animali. Ma anche di Carrère e di Dick, di solitudine e vuoto. Di droghe ed epidemie.

#8 – Val Belluna, Dolomiti

Ho sempre pensato che la montagna fosse degli animali. Fino a poco tempo fa, non avrei esitato a sostenerlo. È delle grosse mucche che ne abitano i pascoli – avrei così tanto voluto averne una mia da bambina! – e della docilità degli asini. Dei galli cedroni innamorati. Delle pecore che sciamano sui prati, dei cani dei pastori. Dei voli planati delle poiane. Degli scoiattoli. Dei piccoli topi che si arrampicano fino alla cima di Punta Grohmann, e anche dei picchi muraioli. Delle aquile, che non sono mai riuscita a vedere dal vivo, ma che popolano le mie fantasie e la mia immaginazione. Di regoli e cince. E poi dei gracchi che accompagnano le scalate con occhio vigile e aspettano educati gli alpinisti in vetta per condividere con loro il pranzo. Delle zecche. Degli stormi di fringuelli alpini che si siedono decorosi sui prati rinsecchiti dal freddo. Delle grida di allarme delle marmotte. Dei caprioli che brucano ai lati delle strade nelle albe gonfie di rugiada e d’estate. Delle volpi furtive. Delle vipere. Dei cervi maestosi e dei loro canti solisti che i boscaioli così bene conoscono. Di lupi, orsi e uccelli rapaci. E sicuramente anche dei ditteri sirfidi, che svolazzano con la pancia a bande gialle e nere, sussurrando all’orecchio di chi percorre sentieri e pareti. Delle pernici mimetiche. Delle lepri e delle loro buffe impronte. Del muso aspro delle donnole.
Ma soprattutto ho sempre creduto che la montagna fosse dei camosci, della decenza e della distanza che gli son proprie. Sono loro che custodiscono i segreti della Piazza del Diavolo. Che si prendono cura della montagna. A tutti sarà capitato di vederli all’orizzonte, a distanza regolare l’uno dall’altro, volti ad uno sguardo concentrato e severo, pieno di rispetto e di dignità. Di conoscenza.

La questione sulla proprietà della montagna si sarebbe risolta così. In poche righe.
Da persona solitaria – il principio di Gleen Gould, secondo cui esiste una proporzione tra il tempo passato in compagnia dei propri simili e quello trascorso da soli, che nel suo caso si traduceva nella necessità di purificarsi dopo un’ora spesa in società con intere giornate di solitudine, mi trova del tutto concorde – non riesco nemmeno a ricordare da quando la mia attrazione per la montagna si sia fatta così forte. Sono nata in un paesino di montagna. E ho letto questo ambiente come un campo aperto, un luogo di possibilità, di libertà, e di solitudine appunto. Di miti e leggende anche. Per una testa come la mia, che pensa per racconti e fiabe, la vicinanza con una natura impervia e selvatica ha rappresentato l’opportunità di dare forse balzane, ma sicuramente colorate spiegazioni ai misteri della mia età, di trasfigurare trapassi che non avevo intenzione di accettare, di trovare un significato per passaggi e cambiamenti. Tutto quello che non potevo nemmeno azzardare di sostenere chiusa in casa o in mezzo ad altre persone, e che mi gonfiava di rabbia le vene del collo, diventava quantomeno affrontabile dopo una corsa in salita nel bosco, o seduta in dormiveglia sotto un abete, giocando a nominare le forme delle nuvole.

Quello che all’interno della comunità sentivo irrisolvibile – dal litigio avuto con un fratello per il possesso di una bambola ad un problema di fisica che non capivo, dalla delusione per un rifiuto amoroso a una versione di latino accidentata, dalla sparizione del gatto dei nonni a quella di uno zio che mi aveva illustrato così bene la monogamia dei piccioni da rendere disonesta la sua morte – si chiariva nel contatto delle dita con la roccia, calpestando sassi, gridando controvento, o incespicando di notte intimidita dai richiami dell’allocco. I piccoli e grandi drammi, le enormi paure, la follia, le ribellioni, trovavano ordine e sistema, e, nei casi più fortunati, senso. Anche nel periodo in cui sono stata geograficamente distante da questo contesto, ho vissuto la montagna come un punto di riferimento. Nostalgico a volte, spesso naïf, ma sempre risolutore.
Quando invece, anni dopo, sono tornata a vivere in un’area marginale, vicina alla montagna, qualcosa ha iniziato inaspettatamente a stridere. Perché viverci? La bellezza delle cime, delle enrosadire, delle vie alpinistiche e di quegli ideali eroici che avevo eletto ad assi della mia vita e attraverso cui stavo portando avanti il mio lavoro nell’ambito dell’arte, valevano la scomodità, la distanza dalla vivacità e dagli stimoli cittadini? Era davvero una scelta o era soltanto retorica dettata dai ricordi di una spensieratezza infantile debitrice di Heidi e delle fiabe delle Dolomiti? Era solitudine cercata, la mia, o solamente isolamento?

Ci sono momenti, a volte interi periodi, in cui pare tutto difficile da mettere a fuoco. Il pensiero annaspa, stenta, si arresta. È in stallo. Ma sono cambiate tante cose in questo ultimo anno. A livello biografico e personale, ma anche macroscopico, generale. Tra le ultime, c’è stata un’epidemia. E soprattutto si è assistito alla sua gestione bio-securitaria, cupa, oscurantista(1). In cui non mi sono sentita rappresentata. Come essere pensante, come donna, come soggetto appartenente ad una generazione e ad un Paese.
Strappo parte di un ragionamento che Emmanuel Carrère fa a proposito di Philip Dick in “Io sono vivo, voi siete morti”(2). Ad un certo punto, parlando del processo di stesura del libro “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, dice di come Dick da bambino divorasse i racconti di Lovecraft, in cui si trattavano cose talmente tremende da non poter essere descritte. Tra gli aggettivi usati per giustificare l’assenza di descrizione, Dick rimane colpito in modo particolare da “eldritch”. “La parola eldritch” – scrive Carrèreracchiudeva tutto ciò a cui Freud fa riferimento quando parla dell’Unheimlich, il perturbante, ma con una dimensione più panica. Alludeva infatti alla natura subdola, perfida, falsamente familiare delle cose, ma anche al terrore, quello che ci fa gridare, come gridiamo per svegliarci da un incubo. La verità, però, è che siamo già svegli, che non c’è scampo: l’orrore è qui.

Dick si trova in una sorta di imbarazzo su come chiudere il libro. Sentendosi a disagio con la parola “fine”, prepara una conclusione che è ben lontana da un sospiro di sollievo. Sembra permetta al pubblico e ai sopravvissuti della storia di tranquillizzarsi, ma la verità è che sta preparando nel frattempo un atroce colpo di scena, lasciando che l’ultima parola spetti al “mostro, alle tenebre, all’orrore.
“E infatti Leo, nel razzo che lo riporta sulla Terra, si accorge che tutti i passeggeri, lui compreso, hanno le tre stimmate di Palmer Eldritch, che l’epidemia si è diffusa (…). «E se il contagio» pensa preoccupato «raggiungesse la nostra mente? Se avessimo non solo le caratteristiche anatomiche della cosa ma perfino il suo modo di pensare, che ne sarebbe dei nostri piani per ucciderla?»” Il libro si chiude così.
Il nostro orrore e la nostra pandemia non hanno sicuramente a che fare con le droghe Can-D o Chew-Z di Eldritch, ma nemmeno più con il Covid-19. Appartengono alla paura e al sospetto ottuso e prevaricatore che paiono ormai instillati, a dosi diverse, in tutti, soggiacendo a quel principio di contaminazione universale perfettamente descritto da Hannah Arendt e incubo/sostegno dei pensieri totalitaristi. Anche oggi siamo lontani da una conclusione consolante, dal “vissero felici e contenti”. Spettatori e sopravvissuti, al massimo, potranno concedersi un attimo di tregua.

Le pagine di Carrère, rilette in piena quarantena, mi hanno dato un gran senso di nausea, ma allo stesso tempo hanno innescato una rivoluzione. La rabbia, la stessa che mi faceva correre in salita nel bosco, ha smesso di giocare a nascondino ed è tornata a galla assieme al ribollire dei pensieri e al farsi spazio dell’idea di una responsabilità, dell’importanza di una resistenza di pensiero.
Con essi, si è ripresentata la necessità di tornare alla montagna. Alla montagna come libertà, come agio. E anche alla bellezza e alla poesia che le appartengono – poco importa se a qualcuno ricorderanno la disposizione d’animo della già nominata Heidi. E, come ha ben espresso l’alpinista Armando Aste, al riflesso della felicità che essa concede a chi la frequenta.
Tra vette e forcelle, perfino l’idea stessa di spazio muta. Anche negli antri più angusti, si percepisce un grande vuoto. Che non ha a che fare con il dubbio dell’isolamento, che tanto mi aveva indisposto, ma con una solitudine “piena, densa, vitale”(3). Lì nessuno vorrebbe più esser sollevato dall’esser solo, sentir suonare il telefono, veder affacciarsi qualcuno, ma solo “restare in silenzio, come al centro del mondo, godendo quasi di una misteriosa ubiquità”. In una posizione privilegiata come questa, si può far tesoro delle mostre viste, di webinar e dirette Instagram, si possono capire e selezionare gli stimoli ricevuti in giro per il mondo, ripensare alle persone incontrate e alle sollecitazioni, rielaborare pensieri, in una scala minima, umana, che si misura con il gesto del proprio muoversi, del proprio essere, del proprio andare. Che non è introversione, ripiegamento e rinuncia al mondo e ai suoi problemi, ma presa di distanza per meglio poterli affrontare.

Sento allora mia la montagna? È mia? In un impeto di onnipotenza, non faticherei a dire di sì. E devo ammettere di averlo davvero anche razionalmente pensato, che fosse mia, e non degli animali. Mia e di tutti quelli che hanno lo stomaco che brontola per la fame della libertà, la stessa che abbiamo sentito limitata, pressata e costretta negli ultimi mesi. Ma non è così.
La verità è che, anche alla luce di tutto questo mio blaterare, la montagna rimane loro. È degli animali, in particolar modo dei camosci, ed io sono solo un ospite. Di una cosa, però, sono assolutamente sicura. Del fatto che i camosci abbiano letto i saggi del filosofo italiano Roberto Marchesini(4), e che tengano in grande considerazione la portata dirompente che l’ospite può avere. Sicuramente, al prossimo incontro, ricambieranno il mio sguardo, aprendo la strada ad una condivisione, a epifanie e ibridazioni, e a nuovi pensieri sull’alterità, che magari mi prepareranno un po’ meglio alla prossima epidemia.

‾‾‾‾‾
1) Per una trattazione più approfondita della questione si rimanda a Giorgio Agamben, Biosicurezza e politica, contenuta nella rubrica “Una Voce”, Quodlibet, 11 maggio 2020 <www.quodlibet.it> e alla serie “Buon Vicinato”, trasmessa su YouTube da Michela Murgia e Chiara Valerio, in particolare alla puntata andata in onda in data 27 aprile 2020.

2) Le citazioni di questo paragrafo sono tratte da Emmanuel Carrère, Je suis vivant et vous êtes morts, Éditions du Seuil, Parigi 1993; trad.it. Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi Edizioni S.p.a., Milano 2016, pag. 128 e segg.

3) Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino 2011, pagg. 74-75.
Interessante a questo proposito anche nell’intervista Vivere nelle terre marginali? È sempre una scelta di vita, di Manuel Orazi a Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Domusweb, 15 maggio 2020  <www.domusweb.it>.

4) Il filosofo italiano Roberto Marchesini, discutendo sull’ospite, ha fatto un salto concettuale notevole, scardinando l’idea che ne abbiamo. In un saggio che porta lo stesso titolo, Ospite, si riferisce proprio agli animali e a come, spesso, vengano relegati e schiacciati sullo sfondo della natura, senza invece capire come l’ospitalità implichi sempre un dialogo, un riconoscimento di una presenza altra rispetto alla nostra, un ricambio dello sguardo. Il pensiero che l’ospite sia una sorta di figurina da appiccicare in un tale o talaltro contesto, viene ampiamente superata. Attraverso la presentazione di esempi e l’incedere dell’analisi, Marchesini tratteggia l’immagine di un ospite radicalmente diversa da quella a cui siamo abituati, facendo della sua identità qualcosa di trascinante, epifanico, in grado di creare nuove dimensioni esistenziali per gli esseri che entrano in contatto, mettendo in discussione l’etogramma stesso della nostra specie.

Daniela Zangrando

Daniela Zangrando

Daniela Zangrando è direttore di un Museo d’Arte Contemporanea che porta il nome di una montagna, il BUREL. Ha collaborato con Alp Magazine ed è freelance contributor di planetmountain.com e Le Dolomiti Bellunesi. È ideatrice del blog GIOVANNI GRANDO. Le avventure di Giovanni Grando, http://giovannigrando.tumblr.com.


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