Reportage

#77 UN MONDO PERDUTO

testo e foto di Saverio D'Eredità  / Udine

01/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Un mondo perduto

di Saverio D'Eredità

Un buon modo per far star tranquillo un bambino nei lunghi viaggi in auto è appioppargli un atlante stradale e lasciarlo giocare a fare il geografo.

Era proprio questo il mio passatempo nei lunghi viaggi in auto dalla Sicilia alle vacanze estive, quasi sempre “nel continente” e a non meno di 2 giorni di auto, traghettate incluse. Devo forse alle interminabili ore passate con una cartina sotto gli occhi la passione per la geografia, le mappe e un certo senso dell’orientamento.

Nell’estate del 1991 passare il confine ed entrare in Slovenia equivaleva ad una piccola avventura, a metà tra l’esotismo e il turismo rivoluzionario. Un carro armato piazzato ad arte a pochi metri dalla dogana e dalla parte opposta al duty free era il segno – a pensarci oggi, forse un po’forzato – dalla fresca indipendenza della Slovenia, con tanto di bandiera sventolante sopra. Una bandiera che sembrava uscita dalla stamperia pochi giorni prima tanto era sgargiante e pulita. Una bandiera dai colori abbastanza scontati, ma con un tocco assolutamente originale: l’immagine stilizzata di un monte a tre cime.

Andarsi a fare un giro in Slovenia, quell’estate, voleva dire potersi vantare al ritorno in classe quanto bastava per guadagnarsi un’aura da reporter di guerra e millantare di aver visto cose inimmaginabili a noi altri del mondo occidentale.

La verità è che l’aria che si respirava, almeno tra Rateče e Bled, era quella di un duty free diffuso che si lasciava alle spalle la Jugoslavia e il blocco comunista per abbracciare magnifiche sorti e progressive dell’economia di mercato. Una piccola terra promessa in cui fare incetta della trinità del basso costo (Carne-Benzina-Sigarette), cosa che dava una certa ebbrezza agli adulti, mentre per un bambino poteva voler dire di aver visto un paese che fino al giorno prima non c’era. Per il resto non è che ci fosse granché. Non c’erano parco giochi particolarmente belli – non come l’impeccabile Austria, per dire – e i gelati avevano un colore sintetico davvero inquietante tanto che ne ricordo ancora uno, di colore e gusto fucsia davvero pessimo (non chiedetemi il gusto fucsia che sapore abbia, per fortuna non li fanno più a Bled, quei gelati).

Quel giro in Slovenia me lo ricordo bene, perché a parte visitare un castello che non mi piaceva più di tanto e mangiare un orribile gelato, l’attrazione maggiore per me era vedere il Triglav. Il puntino sull’atlante stradale del Touring Club con il triangolo di vetta e la quota 2864 era di fatto la cosa più interessante da vedere in quello scorcio di vacanza. Dopo aver rintracciato cimotti, fiumi, laghi e uscite autostradali da Palermo a Tarvisio, poter identificare dal vivo la cima più alta delle Giulie rappresentava la degna ricompensa al mio ruolo di navigatore. Solo che l’atlante stradale si limitava a mettere un puntino in mezzo ad un quadrilatero senza strade e basta. Quindi stava a me capire a che altezza della strada si trovasse il Triglav, badando bene a non confonderlo con tutta la miriade di cime che lo circondava e di cui non sapevo nulla. Fu così che quando al passaggio del ponte sulla Sava comparve un gruppo con tre cime distinte e dall’aspetto gagliardo non potei che urlare la mia soddisfazione. Dopo dei complicatissimi e ingenui calcoli trigonometrici da bambino di dieci anni decretai che il Triglav era senz’altro quello. Tre cime fantastiche, grandi pareti e aspetto regale. Avevano fatto bene, questi sloveni, a metterlo sulla bandiera. Alla dogana riguardai la bandiera sull’uniforme del poliziotto. Si, era quello, non c’era dubbio.

Non sapevo, allora, che il viaggio in realtà era appena iniziato e quell’atlante l’avrei tenuto aperto a lungo ancora. Non molto tempo dopo, infatti, quelle montagne esotiche divennero il mio panorama quotidiano. Lo presi come un segno del destino. Io e quelle cime sconosciute avevamo qualcosa da dirci.
Per prima cosa scoprii che quello, in realtà, non era il Triglav. Quali erano, dunque, quelle misteriose vette dall’aspetto imbronciato? Alte, erano alte. Ma perché nessuno ne parlava? Mi procurai carte un po’più dettagliate, dove comparve il nome Škrlatica e per un po’mi accontentai di relegarle a sottogruppo. Ma solo quando cominciai a frequentare in maniera vagamente clandestina la biblioteca del CAI cominciai a dipanare il mistero.

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Le cime senza nome appartenevano al gruppo del Martuljek e nomi in verità ne avevano, sebbene davvero impegnativi. Oltar, Dovški Križ, Široka Peč, Martuljeska Ponca. Poterli pronunciare già voleva dire avere una certa dimestichezza con lo sloveno. Nemmeno le patetiche traslitterazione del Ventennio erano arrivate fin là. A chiedere qua e là a certi “vecchi” o magari ai “ravanatori” qualcosa traspirava, ma sempre con aria di sospetto. Ognuno sapeva qualcosa, ma se la teneva ben stretta. Nulla rende qualcosa più affascinante della scarsità e frammentarietà di informazioni. Posti così nascondono sempre un tesoro, un segreto o una storia.

È stato così che ho coltivato il sogno del Martuljek, fantasticando su quei nomi ostici da masticare,  ma pieni suggestioni: Oltar (L’Altare), Anfiteater, Tri Mačesni (I tre larici) sembravano i nomi da mappa del tesoro. La visione di quel catino sospeso sopra uno zoccolo di foreste fittissime rimandava alle atmosfere di Conan Doyle e del “mondo perduto”. Eppure, proprio il fatto di averlo tanto idealizzato mi frenava dal mettervi piede.

Finchè un giorno io e Carlo ci trovammo in maniera un po’fortuita sulla cima del Dovski Kriz. Avevamo seguito gli indizi sulla mappa: le cascate di Martuljek, l’enigmatico Bivak III, i Tre Larici e il canalone invisibile. E ricordo esattamente il momento in cui, superato uno scalino roccioso, l’aria gelida della Jugova Grapa ci soffiò in faccia, rinfrescando la fronte sudata in quella torrida mattina di giugno. Ci guardammo senza dire nulla, ma ognuno con la stessa inspiegabile euforia che correva sulla pelle. Eravamo entrati nel mondo perduto.

Essendo alle prime armi, in realtà, quella conquista ben presto si tramutò in una codarda discesa alla cieca sul versante opposto. Con i mezzi precari a disposizione reputammo più sicuro confidare in buone gambe, buona sorte e cordialità del popolo sloveno per riportarci al punto di partenza che non ridiscendere l’orrida paretina friabile e il canalone ghiacciato.

Non fummo delusi. Due ragazzi, provenienti dal Visoki Rokav ci raccattarono con grande gentilezza – come tipico da queste parti – e in cambio di un’ottima Laško ci riportarono all’auto. Forse proprio dal quella codarda fuga nacque il desiderio di scendere quel canale con gli sci. Perché è proprio quando la neve riempie i catini e i canali che precipitano sulla conca di Za Akom che l’idea di disegnarvi delle belle curve, possibilmente ampie e veloci risulta irresistibile. Canaloni invisibili, pendii immacolati e boschi fitti regalavano lo stesso sapore esotico e rivoluzionario che avevano quelle prime gite nella neonata Slovenia.

Tuttavia, un po’ come ai tempi in cui cercavo informazioni su quei monti senza nome, proporre un giro con gli sci in Martuljek procurava nei soci ora perplessità, ora ilarità. Più di frequente, devo dire, la seconda.

E chi è quell’idiota che si accolla 700 metri di bosco ripido per farsene altre 1200 in un posto di cui nulla si sa? Vallo a spiegare, di cosa si prova quando superato lo scalino del bosco si mette piede nel catino di Za Akom e si dispiega a semicerchio questa corona di montagne senza sentieri, bolli, cartelli. Del senso primigenio della montagna nuda, scortese talvolta, ma essenziale.

Fiato sprecato. Regolarmente le stagioni passavano, la perplessità restava.

Ci è voluto quindi un inverno magro per rispolverare il sogno dell’avventura in Martuljek. Quei pendii non solo richiamavano lo sci alpinista sempre curioso e disposto a rischiare. Erano diventati la terra promessa dei cercatori di neve.

Quando al mattino si caricano gli sci con gli scarponi montati sopra sullo zaino, magari partendo da un bel praticello verde rinfrescato di rugiada senza che di neve si senta nemmeno il profumo, la sensazione di far parte di una banda di disadattati è molto forte. Al tempo stesso questi preparativi hanno un sapore molto particolare. Lo zaino carico di attrezzatura diventa per un giorno la zattera con la quale affrontare un mare aperto, il kit di sopravvivenza per fuggire sull’isola deserta. Lo guardo con un sentimento di eccitazione e disagio. Bella l’idea di portarsi tutto in spalla, anche simbolicamente, anche se domani ne porterai le conseguenze. Da bambini, del resto, se ti facevi male mica andavi a dirlo in giro, se no ti sequestravano il pallone.

I disadattati del giorno sono il Batti e il Biondo. Il primo in realtà mi ha sbeffeggiato per anni per la storia del Martuljek quasi fossi l’adepto di una setta senza speranza che predica la salvezza attraverso la sofferenza. A ragione mi faceva sempre notare che se sto posto è tanto figo il fatto che non lo conosca nessuno puzza un po’. Preso anche lui per fame ha però deciso di investire la giornata in esplorazione. Basta che la gita sia nuova e le inquadrature interessanti e già 2/3 delle buone ragioni sono coperte. Il Biondo, essenzialmente, si fida. Non ha chiesto nulla e si è presentato senza indugio all’appuntamento. Del resto ci serve il performer della discesa e il cappellino con visiera fa molto ski-bum. Arruolato.

Un paio d’ore dopo perplessità e ilarità sono solo un ricordo. Quando il bosco ci risputa fuori, dal suo ventre secco sulla grande piana di Za Akom non c’è sci alpinista dotato di un cuore che non possa commuoversi. Ci si sente come i primi uomini in un continente ignoto. La zattera approda. Le tavole si appoggiano sulla neve ed ogni fatica è dissolta. Lasciamo le scarpe appese ai rami di un mugo e ci inoltriamo nel mondo nuovo.

Molte ore dopo sediamo sul bordo di una placca liscia ad osservare con gli stessi occhi persi del mattino la corona di vette che circonda Za Akom. La parete della Široka Peč con le sue punte dentellate come lance proiettava nuovamente la sua ombra minacciosa nel vallone. I tre larici sono appena visibili e la Jugova scomparsa del tutto, come sempre. Forse anche per questo ci perdiamo in altre considerazioni rispetto alla sciata, la neve e le curve. Per una volta tutto questo scivola in secondo piano. Eppure erano anni che fantasticavo su questa sciata. Evidentemente non era questo il segreto del Mondo Perduto.

Dietro agli occhiali scuri da post-sbronza e l’aria squinternata da randagio, il Batti mi guarda soddisfatto. “Che storia sto Martuljek!” – mi dice – “Qua si possono fare ancora un bel po’di gite. Cosa diceva la guida?
Se avessimo seguito la guida ci saremmo persi già stamattina alle 8 in mezzo alla ciclabile, Batti” – ribatto arrogante.

I soci si rimettono in marcia, io ci metto un po’a cambiarmi di nuovo le scarpe. Sentire i piedi scalzi e sudati asciugarsi lentamente sulla pietra calcarea è un piccolo piacere da assaporare, mentre rimettere le scarpe significa dover riprendere la strada del fondovalle, prima o poi. Abbandonare, quindi, il mondo perduto.

Cosa avevo cercato dunque per anni in queste montagne? Cosa mi aveva portato a farne un luogo d’elezione, il segreto da tenere stretto, forse più immaginario che reale? Corriamo troppo spesso il rischio di idealizzare le montagne che scaliamo o che sciamo, cercando in esse un mezzo per riscattare la nostra mediocrità.

Forse in questi anni il Martuljek ha assunto un altro valore. Il recupero di un Significato. Non  quindi l’idea di un luogo proibito ed invisibile, ma il pensiero che qualcosa potesse esserci ancora, da scoprire. Quel “bianco sulla mappa” che ha ammaliato generazioni di esploratori e che può rapire chiunque. Che non è dato dalla fama e che può iniziare ovunque, persino da un atlante stradale o da un equivoco. Cercando un nome tra le pagine di un libro, inseguendo delle tracce come indizi in un giallo o caricando gli sci sullo zaino.

Che ci fosse ancora, da qualche parte, quel luogo. Che fosse per metà fantasia e metà tenacia. Il Martuljek con i suoi vuoti sulla mappa, sprofondato in questo tempo senza l’uomo, fa ancora parte di quel mondo.

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foto:
1. Arrivo in cima, nel gruppo del Martuljek.
2. Lo scenario della conca di Za Akom.
3. Scendendo i selvaggi canali del Martuljek.

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Saverio D'Eredità

Saverio D'Eredità

Palermitano di nascita, udinese d'adozione, alpinista (dilettante) per scelta. Camminare, scalare, sciare e scrivere sono i diversi modi in cui amo esplorare le montagne. Un giorno qualcuno gli chiese "ma cosa ci fa un palermitano sulla neve?” e da allora sta ancora cercando di dare una risposta. Nel frattempo scia, scala e scrive, ma nessuna di queste cose la prende veramente sul serio. Ha pubblicato alcune guide alpinistiche sulle Alpi Carniche e Giulie, condivide pensieri e racconti sul blog “Rampegoni”, ma ci tiene a precisare che tutto questo lo fa comunque nei ritagli di tempo, quando non si occupa di progetti europei e soprattutto dei figli.


Il mio blog | Rampegoni è un blog a quattro mani, ideato e sviluppato da Saverio D’Eredità e Carlo Piovan. Nato come costola dei siti web Rampegoni e Quartogrado, si propone di raccogliere spunti, pensieri, riflessioni sul mondo verticale e non solo, ampliando lo sguardo oltre i meri dati tecnici per tornare al vissuto dell’alpinismo.
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