Il sonno era stato quello che precede i grandi eventi, irrequieto, profondo ma allo stesso tempo sensibile al minimo guizzo di umori del mio corpo o al minimo movimento delle mie membra: mi svegliavo allora, come affiorando rapidamente da un buio lontano che, a brandelli, mi rimaneva negli occhi. Sbattendo le palpebre cercavo di liberarmene, mentre il pensiero di quello che di lì a poco avrei fatto richiamava tutta la mia attenzione e mi scuoteva, caso mai me ne fossi dimenticata… Ma come potevo dimenticare?
Cercavo allora di tranquillizzarmi e di calarmi di nuovo nel silenzio per qualche minuto ancora: volevo riposare ed essere pronta poi.
A un nuovo risveglio, i primi rumori di passi e fruscii insistenti mi convinsero a controllare l’orologio: le 2 e 30! Era scoccata l’ora, era ora di andare.
L’eccitazione nel dormitorio del rifugio Goûter, lungo la via normale francese del Monte Bianco, fu presto intensa. In tanti si rivestivano di fretta, gli occhi piccoli, i visi tirati. Anch’io cominciai a prepararmi senza farmi distrarre dalle ansie altrui, mentre il cuore mi batteva più veloce, ed emozione, paura, euforia si rimescolavano nel mio animo.
Nella stanza degli attrezzi ritrovai la stessa tensione. La luce elettrica, ancora più sferzante nella notte, ben si accordava ai movimenti bruschi, alle voci troppo alte, agli spintoni e all’aria gelida che si spandeva in un istante ad ogni apertura della porta. Ma ancora non ne fui turbata: concentrata, in quel mio stato di esaltazione intima, infilai l’imbrago, sistemai picca, zaino e ramponi e mi sentii pronta a partire.
Uscimmo nella notte, Alessandro, Antonio e io. Solo qualche mormorio tra noi, ma ci scrutammo l’un l’altro per qualche secondo e trovammo conferma e intesa.
Sentii l’aria fredda frustarmi il viso e inspirai profondamente preparandomi alla fatica della prima mezz’ora. Sapevo che sarebbe stato duro per me far entrare in funzione il mio corpo a pieno ritmo a quell’ora insolita.
Cominciammo a muoverci sul ghiacciaio che si apriva dinanzi a noi: alzai lo sguardo e lo vidi, ampio e bianco, estendersi dal rifugio al Dôme du Goûter, stagliato contro il nero della notte. Era illuminato di una luce fioca, trasparente e calda che si diffondeva fino a tutte le montagne circostanti, riverberando sulla sua superficie e rischiarandone ogni ondulazione. La luna piena infatti campeggiava autorevole alla mia sinistra nel cielo terso, rendendo superflue le nostre lampade frontali.
Camminammo in silenzio su un pendio inizialmente poco ripido. Con stupore, notai che non stavo ansimando, che i muscoli rispondevano energici e che il mio respiro era già pieno e regolare. L’inclinazione lieve di quel primo tratto mi aveva senz’altro aiutata a carburare.
Il nostro passo lento prese a poco a poco vigore, sostenuto da una crosta di neve gelata che i ramponi abbrancavano saldamente. Senza distrarmi troppo dal tracciato, sollevai più volte lo sguardo lasciandolo spaziare in quel chiarore tenue su punte di roccia, dossi, avvallamenti che movimentavano di ombre il biancore del ghiacciaio; da qui, poi, lo lasciai scivolare più su e addentrarsi nel nero profondo del cielo, da cui riemerse dopo pochi istanti aggrappato ai lumicini ondeggianti delle stelle, per posarsi finalmente sul tondo invitante della luna.
Ma è luce fredda o tepore che profonde la luna piena? È altera o amorevole la luna?