Anni dopo.
Il monte San Simeone evoca ricordi di un terremoto assassino, non troppo lontano nel tempo. Cima tozza su cui sbatte incessante il vento di scirocco che d’inverno risale dall’alto Adriatico a sciogliere le nevi friulane. Montagna che guarda da vicino la dorsale del Bottai, non fosse per la lacrima smeraldina del lago a dividerle, sarebbe un blocco unico di cime.
Risalgo con Ilario un itinerario lungo e per palati fini. Partiamo dal fondovalle, gli scarponi pestano ghiaie di Tagliamento, risalgono dirupi diventati casa di grifoni e gufi reali e, infine, si perdono in un dedalo di rovi, roccette e sterpaglie. Cerchiamo i segnavia, quei colori sgargianti che sono faro nella tempesta. Oggi siamo nella burrasca e, pesa ammetterlo, ci siamo persi. E ritorna alla mente, immancabile, il ricordo di quelle macchie grigie sulle cortecce, quella sera sul Bottai. Mi avvicino ad una pianta centenaria, la esamino attentamente. Una grossa macchia circolare ha ricoperto quanto le sta ora sotto. Un segno grigio scuro a mimetizzarsi perfettamente con la pianta ospite, come fa il vischio sugli alberi di farin blanc. Capisco all’istante che la mano è sempre la stessa. Studiandone i tratti, quest’artista di bosco, questo pittore di cortecce, espositore nelle gallerie all’aperto dei miei monti, ha un segno distintivo seppur mai si firmi esplicitamente.
Passano gli anni e il mito di Mastro Vernice – così lo ribattezzo – aumenta nel locale ambiente escursionistico. Si fanno nomi di cacciatori più o meno ligi a leggi e regolamenti, congetture su singolari personaggi dei paesi adagiati alla base di queste Prealpi Friulane, ipotesi su motivi e moventi. Le mie personali indagini mi porteranno al piccolo paese di Portis, alle falde del San Simeone ma nemmeno troppo lontano dal Bottai e dalle altre cime che si abbracciano. La sua casa è quella di un signore solitario. Parcheggiato nel prato un fuoristrada vetusto mostra la sua età e le sue avventure con croste di ruggine ai parafanghi. Alcuni palchi di cervo stanno in bella mostra sopra al piccolo ingresso dell’edificio, sono segno tangibile di passione venatoria e stimolano compassione verso quegli animali braccati, nonché, a priori, antipatia verso il proprietario. Una casa anonima che si confonde fra le altre come un sasso levigato nell’alveo di un torrente. Non ho prove certe, non sono un pubblico ufficiale, non tifo per la “giustizia fai da te”. Quindi non approfondisco oltre la validità della mia investigazione.
Nei tempi che seguono vago per monti bassi, questo so fare. Montagne di seconda classe dove l’arte di Mastro Vernice sfolgora sempre più, addobbando quasi tutti i sentieri conosciuti e restituendoli, a suo modo, all’oblio originario. C’è una sorta di piano occulto dietro a questi atti, un lavoro magistrale, architettato alla perfezione e studiato nel dettaglio perché le arterie escursionistiche delle Prealpi tolmezzine stanno, lentamente, perdendo l’identità marchiata dall’uomo. Nella mia soffitta stendo una mappa cartografica sul stavolo di lavoro tracciando con il giallo acceso di un evidenziatore tutti i percorsi scomparsi sotto al pennello dello sconosciuto imbrattatore. È incredibile come il settore di queste montagne che vedo nell’orizzonte meridionale delle mie giornate sia, praticamente, tutto sottolineato.
Cosa può spingere una persona a fare ciò? Cancellare i segni dell’uomo nella natura, comportando pericoli di smarrimento per i viandanti. Un’opera così certosina da aver richiesto, senza dubbio, intere giornate di lavoro, se non addirittura mesi.
Domande e considerazioni che mi frullano in testa anche dopo l’ennesima giornata storta sotto alla cima del Monte Faroppa, dove ritorno in automobile al crepuscolo, ben oltre i tempi di marcia previsti per il solito smarrimento dell’ennesimo percorso “cancellato”.
Credo oramai di odiare apertamente questo personaggio. Se lo beccassi sul fatto non escludo a priori l’uso delle mani.