Quella mattina lasciai le Tavor sul tavolo di casa.
Proprio lì accanto alla tazzina sporca di caffè e a quella sigaretta che aveva appena avvelenato i miei polmoni. Decisi che avrei affrontato la montagna e le mie paure come si fa con un vecchio amico, senza precauzioni.
Qualche mese prima tutto ciò mi avrebbe terrorizzato ancor prima di mettere in spalla lo zaino. Qualche mese prima la paura di deludere Gaia e di farle vedere che stavo male, mi avrebbe bloccato le gambe e annebbiato i riflessi ancor prima di partire. La chiamano ansia anticipatoria ed è la fine prima dell’inizio. Ora ero da solo. Era la conseguenza delle mie incontrollabili emozioni. Avevo perso per sempre l’unica persona che sinceramente mi aveva amato e con la quale avevo finalmente capito cos’era la felicità. Potevo contare solo su me stesso ma sapevo che la montagna mi avrebbe aiutato. Lo aveva sempre fatto.
Iniziai a salire le prime rampe della Croda del Becco lasciandomi il lago incantato alle spalle. Un sole rovente rifletteva sulle rocce bianche annebbiando la mia vista. La mia andatura si fece sin da subito traballante, sapevo di non avere la protezione della pillola magica.
I primi tremolii si fecero sentire ancor prima del bosco. La testa iniziò a sembrarmi vuota, il cuore a battere all’impazzata, i muscoli delle spalle si irrigidirono e la salivazione quasi scomparve. Era come ogni volta, morivo e poi rinascevo lentamente. Mi succedeva dagli ultimi tempi dell’Università.
Venne l’ombra degli alberi. Mi fermai e con me quelle flebili speranze di potercela finalmente fare. Mi chiusi a bozzolo su una roccia. La mia mente iniziò a prendersi gioco di me. Mi fece cadere da un precipizio, mi sotterrò sotto una rumorosa frana, mi fece divorare da un branco di lupi, fece calar la notte buia. “E’ finita”, pensai.
Stavo correndo in una grande savana. Io ero la montagna e la montagna me.
Fu allora che la montagna mi parlò e lo fece dolcemente attraverso il canto di un fringuello alpino. Quel suono rilassò i miei muscoli e risincronizzò il battito del mio cuore. Vidi un po’ di luce. Mi alzai e scorsi due mucche attraverso gli alberi, stese in una piccola radura. Mi avvicinai, me lo fecero fare quasi consapevoli che non mangiavo la loro carne da circa un anno grazie a quella scelta che rafforzava i miei ideali. Iniziai ad accarezzare la grande testa di una di loro. Le mie mani si fecero più ferme, le mie gambe pure.
Un grande abete rosso attirò la mia attenzione. Lo abbracciai. Già in passato avevo compiuto questa sorta di rito ma quella volta lo feci più intensamente. Sentii il suo fluido vitale scorrere nelle mie vene. Riaffrontai le ripide rampe, i fantasmi della mia mente sembravano spariti. Mi prese quell’eccitazione tipica di un bambino che a Natale aspetta la slitta con le renne. Sarei salito fino in cima e avrei sfoggiato il sorriso più grande da quando vidi per la prima volta le Dolomiti.
Non esistevano più tratti ripidi, esposti, passaggi difficili, brutti pensieri. Stavo correndo in una grande savana. Io ero la montagna e la montagna me. Il lago di Braies sembrava così piccolo da lassù ma non era mai stato tanto bello.
Si dice che tutte le battaglie, anche quelle perse, servano ad insegnarci qualcosa. Ne ho perse troppe ed ho imparato molto ma quel giorno, quel fottuto giorno, non fu di certo la mia Waterloo.