Stavamo scendendo dalla cima del Mulaz e prima ancora di arrivare all’omonimo Passo si sentirono i primi tuoni, ma non parevano poi così vicini. A quel punto ci chiedemmo se deviare al rifugio oppure tentare una rapida discesa per raggiungere la macchina alla partenza del sentiero in Val Venegia. Decidemmo di scendere e quindi giù, quasi di corsa mentre una sorta di melassa nuvolosa, scura, densa terrificante tramutò il giorno in notte nel giro di pochi secondi.
Le prime gocce arrivarono in breve accompagnate dal bagliore dei fulmini, dai tuoni e dalla grandine.
Giù a capofitto per il sentiero avvolti nelle nostre giacche mentre l’acqua a iniziava a colare fin nelle scarpe.
Come in una specie di visione onirica, ricordo di aver superato alcuni ragazzi accovacciati tra i massi in campo aperto, di essermi chiesto quale fosse il motivo di quel comportamento e se fosse quella una moderna tecnica di sopravvivenza. Mi rimase la perplessità per un po’ di tempo fin quando li vedemmo arrivare, fradici e quasi in ipotermia, nel mal comodo riparo sotto roccia che ci dava rifugio.
Fu quindi evidente che quella bizzarra tecnica di sopravvivenza non aveva superato il test sicurezza e il vecchio riparo sotto roccia meritava la considerazione anche dei millenials.
Da quel riparo i bastoncini schizzarono fuori come aculei di un porcospino e dati in pasto alle saette che per fortuna non ne furono invogliate.
Il temporale passò nel giro di mezz’ora e scendemmo bagnati e infreddoliti fino alla macchina.
Con Giulia e Alessio eravamo stati in cima al Mulaz per rilevare la flora di vetta, il giorno precedente avevamo raggiunto Cima Cece che è la cima più alta del Lagorai e lambisce di poco il confine del Parco Naturale Paneveggio e Pale di San Martino, rimanendone fuori di un soffio.
L’anno precedente avevamo rilevato Cima Bocche, Cima Vezzana e Cima della Fradusta, all’interno di un progetto che ha lo scopo di monitorare nel tempo l’evoluzione della vegetazione in alta quota come effetto dei cambiamenti climatici.
Quella mattina partimmo di buon’ora e come il solito, seguendo il passo spedito di Alessio, ci trovammo in un attimo al Passo del Mulaz dove Sebastiano, il gestore del rifugio, stava armeggiando con la sua teleferica; non ci fu nemmeno il tempo di fare due parole perché lo slancio ci portò subito oltre, ad inerpicarci sul versante ghiaioso che porta verso la cima, tra le nebbie che andavano e venivano.
Nel frattempo, il palmare di Alessio registrava i nomi delle piante che scorrevano sul sentiero assieme alle coordinate e alla quota, qualche aiuto lo davo anch’io segnalando qualche esemplare più defilato o per far intendere ai due botanici, che qualche specie, alla lunga, m’era riuscito di impararla.