BIANCO
Autore: Sylvain Tesson
Editore: Sellerio, 2023
Pagine: 264
Prezzo di copertina: € 16,00
Recensioni di Davide Torri
Sia per gli ignoranti, che ovviamente non sanno di esserlo, sia per chi non lo è e cerca, anche in questi giorni invernali, di non perdersi tra centri commerciali adrenalinici e luminarie che poco (ci) illuminano. Per questa seconda e minoritaria, ahi loro, categoria doniamo qualche piccolo consiglio di lettura.
Magari potete comprare una copia dei libri qua presentati, scriverci una dedica, fare un bel pacchetto e metterlo sotto l’albero di Natale di qualche vostro conoscente che mai ha toccato, vantandosi, un libro.
Sarà un bene per voi. Perché parafrasando la Quinta Legge Fondamentale del famoso saggio di Carlo M. Cipolla “l’ignorante è più pericoloso del bandito”.
Eh, Auguri e Buon Natale.
(la redazione di altitudini.it)
Autore: Sylvain Tesson
Editore: Sellerio, 2023
Pagine: 264
Prezzo di copertina: € 16,00
UNA VOLTA IN STRADA TUTTO SI SEMPLIFICA
Tesson, Tesson e ancora Tesson. Il francese dalla testa rotta[1] è diventato una specie di santo laico per quanti amano i lunghi viaggi[2]. Possibilmente a piedi, faticosi, pericolosi e inutili. Ecco, quindi, che dopo La pantera delle nevi, rincorsa-ricerca della creatura leggendaria e magica che -forse- vive nascosta tra i picchi himalayani, arriva in libreria il suo ultimo libro dedicato alla neve: Bianco.
Non è il primo, Sylvain Tesson, a decidere di attraversare le Alpi con il classico itinerario Ma-Co(n)-Gra(n)-Pen(a)-Le-Re-Ca-Giù e le deviazioni – obbligate – francesi, svizzere, austriache e slovene e nemmeno il primo a raccontare i lunghi tratti in mezzo al colore che dà il titolo al libro. Eppure, ancora una volta, il Grande Viaggiatore ci racconta qualcosa di più prezioso di un lungo e freddo calendario di salite, discese, incontri, soste, sigari accesi, libri sgualciti in fondo allo zaino.
Diviso in capitoli – La libertà, Il tempo, La bellezza e L’oblio – per i quattro inverni, dal 2018 al 2021, il viaggio dei due sciatori-alpinisti[3] è, come spesso accade, un viaggio di uomini-bambini che, come diceva Siddartha, sono le persone che possono amare.
Bianco è il più telegrafico dei libri di Tesson, forse un vero carnet de voyage ovviamente senza la retorica dell’assalto all’Alpe da cui il francese, con la sua tagliente sagacia, si è allontanato almeno quattro libri fa. La brevità dei capitoli – ogni giorno di marcia appartiene a poche pagine con pochissimi dialoghi e brevi riflessioni, quasi una raccolta di aforismi – permette ai noi lettori di affrontare senza preconcetti le tante escursioni nella bellezza e nel vuoto che l’autore ci regala. Nel libro spesso le voci degli sciatori si incrociano portando una diversa, e complementare alle altre, visione del mondo: Du Lac fiuta, Rémoville studia e Tesson annota tutto seguendo il connubio nato tra ragione e istinto.
Gli esquimesi hanno ventuno modi per dire neve, Tesson mette in fila ottantacinque giorni e quasi duecentocinquanta pagine per definire la stessa cosa, pronto a massacrarsi di fatica per attraversare tutti i paesaggi[4] per creste e pendii, per Bianco e per vuoto, per ghiacci e per cieli o, riassunto, per venti e per geli.
Dopo una giornata di salite, discese, valli, colli, trame di combe, pendii ghiacciati, seracchi, tracce sottili, pareti ossidate Tesson raggiunge un’isola dove riposti gli sci può mettere a bollire l’acqua per un the alla violetta perché l’alpinismo (e lo scialpinismo) è l’alternanza quotidiana tra una vita da sportivo e una vita da vecchia signora. Il suo è un viaggio in solitudine, nella solitudine, anche se con i suoi pochi compagni forma una squadra solida e fortunata, perché parole di Tesson: “la solitudine è un sentimento relativo”.
E così, dopo chilometri nella neve impugnare la maniglia di una baracca di lamiera (o di un capanno di legno esposto ai quattro venti, di un rifugio invernale su una cengia o di un ospizio per pellegrini, di una locanda, di una baita d’alpeggio o, ancora, di un locale invernale sommerso dalla neve, di un hotel di legno, di una chamanna svizzera o di una piccola stazione ferroviaria) serve ad aprire la porta del paradiso.
Ogni giorno, un passo dietro l’altro, si avanza nel Bianco immersi in uno sforzo costante, dal potere ipnotico, dentro il quale si fa spazio un piccolo prontuario dedicato alla filosofia e alla poesia: da leggere o ascoltare dentro ad un rifugio dove la stufa cerca con poco successo di riscaldare i viaggiatori.
Con Tesson sciano Lord Byron, Tolstoj, Cendras, Mallarmé, Baudelaire, Stendhal, Stifter, Nietzsche, Proust e soprattutto Arthur Rimbaud. Ognuno di loro dialoga con l’irrequieto fumatore di sigari che con gli sci si spinge alla virtù sbarazzandosi di tutto. Una penna, un coltello, del fuoco, un po’ di carta, una lampada e una antologia con un centinaio di poesie. E zaini di quindici chili.
Bianco è pieno di piccole perle, un libro che si può leggere partendo da una qualsiasi pagina-tappa, che, seppur intriso di grande fatica, appare sempre lieve e gentile: qualità che, quaggiù, non si trovano con facilità. Forse il libro più essenziale dello scrittore-viaggiatore-filosofo-selvatico e merita di raggiungere, messo sul fondo del nostro zaino, i rifugi, anche improvvisati, che troveremo sulla nostra strada in questo nuovo inverno bianco perché, noi lo sappiamo bene, l’alpinista è colui che in alto non troverà mai quello che gli mancava dabbasso, ma sarà sempre pronto a riprovarci.
“Che fare?” si era chiesto un tempo Lenin. Leggiamo questo libro.
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[1] Sylvain Tesson è, indirettamente, diventato anche un eroe del cinema con due film, tra l’altro molto belli, tratti dai suoi libri nelle sale dei cinema di metà Europa.
[2] Di Tesson I Sentieri Neri divenne, qualche anno fa, il libro guida per l’edizione n. 7 del Blogger Contest di altitudini.it.
[3] Quasi tre, in effetti, perché insieme allo scrittore percorreranno 1600 km con gli sci (quasi) sempre ai piedi Daniel Du Lac, maniaco delle tracce il più possibili diritte, e, per gran parte del viaggio, Philippe Removille, il più in ordine del gruppo.
[4] Tesson scrive: volevo che il mio viso, che è il paesaggio dell’anima, scrutasse i paesaggi, che sono l’anima del mondo.
Autore: Paolo Rossi e Nicola Rebora
Editore: Paolo Rossi e Nicola Rebora, 2023
Pagine: 82
Prezzo di copertina: € 35,00
MI SEMBRAVA DI AVER VISTO UN GATTO
Caratterizzato da un crowdfunding generoso è uscito il nuovo libro fotografico dell’ormai affiatata coppia di cuterrei liguri Nicola Rebora e Paolo Rossi: Il Gatto dei Boschi, titolo dedicato al biologo e zoologo Bernardino Ragni che per primo soprannominò così la specie. Non è la loro prima raccolta fotografica dedicata a questo felino, che tanto ricorda il Ghignagatto, ma questa appare come un lavoro più maturo, personale e completo. Nicola e Paolo non seguono nessun guru della fotografia, tantomeno quelli che pubblicano sulle eleganti riviste patinate: eppure, come diceva un loro conterraneo a loro insaputa, stanno diventando maestri per molti altri.
Il Gatto dei Boschi, un libro di fotografie di grande formato e ottima qualità di stampa, da sfogliare e riguardare, prima da soli poi in compagnia di cari amici con cui condividere le emozioni che le immagini del duo Rossi-Rebora evocano. Foto con le quali accendere una sfida tra quanti le guardano per la prima volta, magari il pomeriggio di Natale, invitandoli a cercare, tra gli intricati grovigli arborei di questi boschi per nulla fatati, le orecchie appuntite di una piccola martora, il passo veloce della faina, lo sguardo compassionevole -nei nostri confronti- del Felis.
Conosco da anni Paolo Rossi[1] e non sono mai riuscito a definirlo semplicemente fotografo. Lui, il più schivo dei liguri va per i boschi brutti[2] degli Appennini, tra Piemonte e Liguria, vestito come un cacciatore dei Fratelli Grimm alla ricerca di luoghi che, forse, solo forse, potrebbero vedere, per poco e furtivamente, apparire un animale selvatico. Un gatto[3]. Non ha macchine fotografiche con obiettivi-obice e non cerca, non vuole, immagini di maniera, nessun animale tassidermizzato. Le sue sono foto spigolose, interrogative e non esclamative, non ci danno certezze o risposte alle nostre, spesso fallaci, convinzioni ecologiche ma accendono dubbi e inquietudini su quello che potrebbe essere il nostro futuro (e quello della Terra). Ogni sua immagine nasce da camminate faticose attraverso valli dai versanti ripidi e scuri, dopo lunghe attese e meditazioni obbligate dal buio e dal freddo, non ha inviti preparati per i suoi animali veramente selvatici[4]. Paolo è veramente selvatico.
Il barbuto fotografo non ha mai fotografato un gatto selvatico personalmente, schiacciando l’otturatore della propria macchina fotografica, eppure le immagini straordinarie catturate dalle Reflex-Trap sono ancora sue perché sua è la perspicacia e la caparbietà con cui va alla ricerca dei giusti luoghi dove posizionarle: lassù, in mezzo al labirinto delle montagne sopra Genova.
Paolo (e così il suo compagno di avventure Nicola) è una specie di Noè del XXI secolo, un Noè al contrario che, con grande calma e saggezza, fa uscire dall’Arca, quella costruita da un dio spinoziano per difendersi dal diluvio d’acqua nera provocato dagli uomini, animali dal passo fermo ma che abbiamo dato per dispersi. Per prima i lupi, poi faine, donnole, martore, geotritoni, scoiattoli, ghiri, volpi, cinghiali e ora il gatto servægo. La porta dell’Arca del Noé delle quattro province è aperta e dal fondo buio sembra stia per uscire ancora qualcosa.
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[1] Altitudini.it ha raccontato, prima ancora che Paolo diventasse quello che è ora, nel 2018 degli straordinari scatti del fotografo genovese.
[2] I boschi di queste aree, che hanno visto le zone dedicate alle coltivazioni e al pascolo ridursi con l’abbandono delle terre alte, si sono espansi notevolmente.
[3] Il Felis silvestris ha determinate caratteristiche che lo differenziano dal gatto domestico: tra i caratteri da osservare ci sono senz’altro la coda con i suoi anelli, il dorso che deve avere una banda vertebrale nera singola e ben definita e le quattro bande nere sulla nuca. Il colore di fondo del manto ha il colore giallo dell’erba secca.
[4] I gatti selvatici non amano gli spazi aperti, stanno dove la loro pelliccia (fino a pochi decenni fa ricercata per farne capi costosi) si confonde con il bosco. Stanno all’erta, non amano gli uomini, non hanno bisogno di loro e, pertanto, è ben difficile sorprenderli.
Autore: Emilio Previtali
Editore: Freridespirit, 2023
Pagine: 292
Prezzo di copertina: € 16,00
SKI IS LOVE (DI SICURO NON UNA CYCLETTE)
Premessa: sono orgoglioso di conoscere, da sempre, l’Emilio Previtali[1], che detta così sembra una frase scritta da Giovanni Cagna. E sono contento che il suo libro La meccanica delle nuvole (va quasi sempre a finire che piove) sia oggi negli scaffali delle migliori librerie. Quasi trecento pagine, divise in nove capitoli e tanti racconti, La meccanica delle nuvole è certo un libro catartico, redentore (va be’ siamo sotto Natale) per il mio amico bergamasco, scritto per mollare (anche) un freno a mano tirato e passare a qualcos’altro, ad altre storie o ad un vero libro magari, anche se questa raccolta di brevi e meno brevi pensieri può stare ben comoda tra libri più veri (che poi cosa siano i libri veri ancora non l’ho capito).
Se esistessero ancora i pionieri nel XXI secolo Emilio Previtali potrebbe, a pieno titolo, calzare uno dei loro cappelli in pelo di castoro. Pioniere nell’andare in montagna, alpinista e sciatore di grande livello[2]: quante cose ho vissuto. Sciare a quel tempo, non era sciare. Era un modo di stare al mondo. Pioniere nel raccontare l’avventura dirigendo riviste eccellenti e utilizzando, prima che i social strabordassero, il web per portare molti nel cuore delle spedizioni himalayane[3].
Nei suoi racconti abbandonata – ma solo in minima parte – la caratteristica modestia, molto bergamasca e molto montanara, esce la figura di un uomo che, padrone assoluto della sciata a tallone libero[4], sa surfare e anticipare le cose della vita con eleganza.
Sono, quelli di Emilio, racconti scritti da una persona che sta certamente qua, nel presente, conservando come quelli che hanno vissuto un bel pezzo della propria vita nell’altro secolo una saggezza ed una ironia che oggi più non esiste: «Ce la fai ad abbracciare qualcuno, mentre scii?” «No, mentre scio, no». «Io sì, invece». Mi ha fatto vedere: mentre parlavamo lo seguivo, lui andava all’indietro e io sciavo in avanti, come si fa normalmente. Mi ha chiesto di avvicinarmi e io l’ho fatto, ci siamo abbracciati. Mi ha stretto, poi ha cominciato ad accelerare e ad andare sempre più̀ veloce all’indietro e ho pensato che saremmo morti perché andavamo davvero troppo veloce, però lui, niente, lui era tranquillo.
Nel La meccanica delle nuvole ci sono piccole storie in cui non succede quasi niente (eppure quel quasi niente è speciale) e racconti che sfiorano la perfezione. A volte si sorride leggendo il libro ma resta sempre sottotraccia la consapevolezza dell’autore di essere, in qualche modo, sopravvissuto[5] a quanto ci viene raccontato, accompagnata ad una certa malinconia che lo rende adeguato ai tempi attuali: spero che a Giulia e a tutti gli altri bambini e ragazzi a cui ho insegnato un giorno venga voglia di farsi delle promesse, di realizzare dei sogni e di provare a realizzarli per davvero. Qualsiasi sogno, qualsiasi promessa. Lo spero davvero. Perché́ allora vorrà̀ dire che la mia anima si sarà travasata dentro a quella di qualcun altro. Davvero, per sempre.
Si capisce che l’autore, come in ogni suo impegno (per primo la sua famiglia che appare in molte delle sue storie), ce l’ha messa tutta fino ad arrivare, nell’arte dello scrivere[6], ad una sua dimensione. Una dimensione fabbricata dalle e sulle sue vite precedenti. Quella, ad esempio, di bambino, dalle grandi orecchie a sventola, infaticabile alle Olimpiadi (fatte nel cortile di casa): Ricordo perfettamente la corsa solitaria nel buio sul retro della casa, da solo, unico essere vivente sopravvissuto al mondo, era la sensazione di essere invincibile che mi sarebbe restata dentro per sempre. Invincibile non è uno che vince, è uno che non si arrende. Quando passai sul traguardo per l’ultima volta alle dieci e mezza molti bambini erano già andati a casa o ci stavano per andare, la gara doveva per forza finire. La bambina che aveva preso nota dei giri per tutto il pomeriggio e per tutta la sera prima di andare via mi consegnò un biglietto con scritto sopra 119, era il numero dei miei passaggi.
Presi il biglietto e me lo ficcai in tasca e poi me ne andai a casa anche io, di corsa su per tre piani di scale: mia mamma mi aveva chiamato affacciandosi al balcone già̀ più̀ di una volta e sembrava abbastanza incazzata, non c’era tempo per i festeggiamenti.
O quella di eccellente telemarker (uno dei migliori al mondo) che fa curva speciali scendendo dal Denali: speciali perché dentro a ciascuna di quelle curve c’erano tutte le curve del mondo, tutte quelle che ho fatto in questi anni. Era un distillato di telemark, del mio telemark, quello che mi veniva fuori sciando lì in cima. Non c’era niente da pensare, mi bastava andare, andare giù̀. Non ero io a fare le curve, erano le curve che facevano me. (…). Leggerezza. Purezza. Tutto e niente, insieme. Essere “sciato”, anziché́ sciare.
O, ancora, quella di normal people che osserva il mondo che va a sbattere: Il Super Tele è un simbolo in un certo senso. Una bandiera. Direi che è la bandiera ufficiale della serena rassegnazione italiana. Che dopo che gli dai il primo calcio, al Super Tele, lo capisci subito che ti hanno fottuto, con quel pallone. Però te lo tieni. Tanto ormai. (…) Ho visto il pallone scavalcare il muretto, rimbalzare e rotolare sul selciato e poi fermarsi in un angolo della piazza con un dondolio irreale. In quell’esatto momento ho pensato: siamo fottuti.
E, infine, di chi ha camminato con i grandi personaggi che hanno attraversato il periodo naïf dell’alpinismo e dello sci estremo, stravolgendo e riscrivendo le regole dello stesso: Boivin era sceso dalla sua automobile ed era entrato in negozio, aveva un foulard fucsia avvolto attorno al collo ed era più̀ alto di quanto me lo ero immaginato. Io fino a quel momento i foulard li avevo visti solo attorno al collo di mia nonna. Foulard, invece. Fucsia. Per andare a sciare.
Emilio Previtali deve ancora affrontare il passo non facile di pubblicare un romanzo lungo e ce la farà perché, come Calvino, Pavese e la Ginsburg, sa dell’importanza e della difficoltà di scrivere: apri un libro ad una certa pagina, una a caso di un libro a caso, e inizi a leggere, e dopo che hai letto mezza pagina hai la sensazione che quel libro ti stesse aspettando, che parli con te, che tu avessi un appuntamento con lui, con quel libro, a quella pagina ed in quel giorno, in quel momento. (…) allora vuol dire che i libri hanno una forza misteriosa, incredibile, mostruosa. Magica. E vuol dire che quella forza, la forza dei libri, non è nei libri. È dentro di noi.
Noi lo aspettiamo l’Emilio, storyteller diventato scrittore, per intanto facciamo tesoro dei racconti di La meccanica delle nuvole, ma, per favore, che non ci faccia attendere a lungo perché il tempo veramente vola. E questo è quanto.
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[1] Emilio Previtali è anche uno degli autori di altitudini: due racconti del La meccanica sono stati ospitati dalla nostra piattaforma.
[2] Emilio ha conosciuto e condiviso montagne e nevi con i grandi di questi ultimi quarant’anni. Pensate ad un nome qualsiasi (Ben Moon, Fritz Barthel, Peter Bauer, Simone Moro, Marco Siffredi, Manolo, Giulia Monego ad esempio): ecco Emilio era lì. Con loro. Ma, come direbbe lui, questo non ha importanza.
[3] Sì, può dire che la definizione di storytelling nel web nasce con figure come Previtali: i suoi reportage – dal tentativo di salita allo Shishapangma nel 2007 al racconto dell’inverno 2014 sul Nanga Parbat- sono da considerare le basi su cui poi si sono evolute tutte le altre narrazioni multimediali.
[4] Atleta del Global Team di North Face ha portato il telemark sulle nevi più prestigiose. Maestro di sci e Snowboard.
[5] Scrive Previtali: Ho fatto calcolo che in tutta la mia vita ho perso più̀ di una cinquantina di amici a causa di incidenti in montagna. È un numero spaventoso. È stata una specie di guerra e l’abbiamo persa. La sensazione, se sei così fortunato da sopravvivere, è quella di essere un superstite.
[6] Dopo aver frequentato la Scuola Holden sono stati molti e continui i contatti di Previtali con autori e scrittori da lui definiti importanti (e certo lo sono) per raggiungere uno stile di scrittura ed imparare ad usare le parole.