Sulle mie montagne, quando cade la prima neve, il piccolo dio dell’inverno scende sulla terra e si fa padrone assoluto dei boschi e dei pascoli alti. Il gelo rinserra il tempo e lo spazio dentro il suo uovo di cristallo dal quale, forse, un giorno nascerà un’altra primavera.
I selvatici, che non possono nascondersi sul fondo delle loro tane, lasciano questi luoghi e vanno a svernare sul fondovalle. Gli uccelli migratori, previdenti, non si fanno mai sorprendere dalla bianca sovrana della stagione fredda e per tempo fanno rotta verso sud. La breve luce del giorno precipita, senza avvisare, dentro una notte che sembra non dover finire, la vita si ferma in attesa di momenti migliori.
Da ragazzo era questa la stagione che preferivo, trovavo nei giorni brevi e freddi la solitudine cercata che mi sfuggiva per tutto il resto dell’anno. Quel tempo è passato e oggi comprendo bene le angosce di mio padre, quando la notte cadeva sul nostro piccolo mondo prima del rintocco della campana, alle cinque della sera.
Temeva l’inverno mio padre e odiava la neve, almeno quanto io la amassi.
In quei giorni di gelo, le poche persone che si avventuravano all’aperto sull’Altipiano imbiancato non lasciavano mai la traccia di chi li aveva preceduti. Allontanarsi dal solco segnato porta spesso a perdersi e, allora come oggi, ritrovarsi diventa compito arduo. La neve e la vita ingannano in egual misura.
In uno di quei giorni, il bambino che ero si lasciò ingannare dalla neve. Accade nel tempo sacro in cui si celebra il ritorno della luce.
Per troppo amore o, forse, per quelle bacche rosse che occhieggiavano da lontano, sfidai quel bianco vergineo dove nessun piede mi aveva preceduto ad indicarmi la via. Camminai a lungo finché, cieco e sordo, sprofondato senza più forze in quell’elemento infido, temetti di dover morire annegato. Ormai perduto, ho sfilato la mia povera giacca a vento rossa e l’ho distesa sulla neve facendone un salvagente. Ho lottato così a lungo prima che qualcuno mi vedesse e andasse a chiamare mio padre che venne a salvarmi. Le rosse bacche del sorbo, che mi avevano attirato in quella trappola gelata, rimasero sparse sopra il bianco tappeto come minuscole gocce di sangue e io, nonostante il freddo mi fermasse il respiro e lo spavento accelerasse all’impazzata i battiti del cuore, con gli occhi pieni di rimpianto ho cercato ancora quelle perline rosse e le ho salutate sconsolato.
Testo molto bello e significativo. Spero che tu voglia continuare a scrivere. Proprio in periodi “bui”, come quello odierno, è indispensabile trasmettere, specie alle nuove generazioni, il pensiero e le idee di chi ha maggiore cognizione della realtà. Complimenti e buone feste
Grazie Tiziano
Ti leggo sempre volentieri, mi fa sognare. Ciao
Grazie Marco
Mi vengono in mente due cose dalla lettura di questo testo: la canzone di De Andrè sulla guerra di Piero, un inno pacifista che chiede all’uomo di non uccidere. Mai come ora serve smettere di fare la guerra e tornare alla intelligenza della diplomazia che in fin dei conti molti soldati comprendevano sul campo subendo la stupidità dei generali;
la seconda riguarda la “meditazione” che viene richiamata parlando dei tagli di Lucio Fontana, perché quel taglio, quella linea retta, oltre che aprire ad una attesa, si pone nella materia alla “conquista dello spazio”, che è il meglio che si può regalare ad un bimbo o un ragazzo.
Sono due temi di grande attualità e di grande necessità, perché il primo aspira alla pace, per tutti, il secondo alla felicità che dovrebbe essere anch’essa per tutti.
Grazie
Grazie Vittorio per questa sua preziosa riflessione.
Solo il profondo contatto con la natura fa comprendere l’inusitata stupida follia della guerra. La vita e la morte sono in sfida costante, ma l’ uomo non dovrebbe comandare il gioco fermando a suo piacere il dado che rotola
In una società che si sta’ perdendo il tuo scritto riempie il cuore. Perché è vero a volte occorre perdersi per ritrovarsi. Mi fa piacere che condividiamo la stessa passione per lo sci di fondo. Ciao e buona vita.
Grazie Giuseppe