Racconto

UNA TRACCIA DIRITTA E SOTTILE

La neve in montagna non è per un mondo di fiabe eppure, con il giusto sguardo, la sua magia ci sorprende e ci appaga. Una storia per il Natale che altitudini vuole regalare a tutti quelli che amano la vita, le montagne e le giornate fredde dell’inverno.

testo di Andrea Nicolussi Golo

Andrea Nicolussi Golo giovane fondista
23/12/2023
8 min

Il Natale di Altitudini 2023

Ancora una volta la redazione di altitudini ha voluto celebrare l’arrivo del Natale.
Il racconto di Andrea, amico e memoria di tempi che ancora hanno il compito di illuminarci, è il nostro regalo di Natale
Un augurio per un futuro migliore e che le terre alte diventino un luogo dove nulla di male può accadere.

 

la redazione di altitudini.it

Una traccia diritta e sottile

Sulle mie montagne, quando cade la prima neve, il piccolo dio dell’inverno scende sulla terra e si fa padrone assoluto dei boschi e dei pascoli alti. Il gelo rinserra il tempo e lo spazio dentro il suo uovo di cristallo dal quale, forse, un giorno nascerà un’altra primavera.
I selvatici, che non possono nascondersi sul fondo delle loro tane, lasciano questi luoghi e vanno a svernare sul fondovalle. Gli uccelli migratori, previdenti, non si fanno mai sorprendere dalla bianca sovrana della stagione fredda e per tempo fanno rotta verso sud. La breve luce del giorno precipita, senza avvisare, dentro una notte che sembra non dover finire, la vita si ferma in attesa di momenti migliori.

Da ragazzo era questa la stagione che preferivo, trovavo nei giorni brevi e freddi la solitudine cercata che mi sfuggiva per tutto il resto dell’anno. Quel tempo è passato e oggi comprendo bene le angosce di mio padre, quando la notte cadeva sul nostro piccolo mondo prima del rintocco della campana, alle cinque della sera.
Temeva l’inverno mio padre e odiava la neve, almeno quanto io la amassi.
In quei giorni di gelo, le poche persone che si avventuravano all’aperto sull’Altipiano imbiancato non lasciavano mai la traccia di chi li aveva preceduti. Allontanarsi dal solco segnato porta spesso a perdersi e, allora come oggi, ritrovarsi diventa compito arduo. La neve e la vita ingannano in egual misura.

In uno di quei giorni, il bambino che ero si lasciò ingannare dalla neve. Accade nel tempo sacro in cui si celebra il ritorno della luce.
Per troppo amore o, forse, per quelle bacche rosse che occhieggiavano da lontano, sfidai quel bianco vergineo dove nessun piede mi aveva preceduto ad indicarmi la via. Camminai a lungo finché, cieco e sordo, sprofondato senza più forze in quell’elemento infido, temetti di dover morire annegato. Ormai perduto, ho sfilato la mia povera giacca a vento rossa e l’ho distesa sulla neve facendone un salvagente. Ho lottato così a lungo prima che qualcuno mi vedesse e andasse a chiamare mio padre che venne a salvarmi. Le rosse bacche del sorbo, che mi avevano attirato in quella trappola gelata, rimasero sparse sopra il bianco tappeto come minuscole gocce di sangue e io, nonostante il freddo mi fermasse il respiro e lo spavento accelerasse all’impazzata i battiti del cuore, con gli occhi pieni di rimpianto ho cercato ancora quelle perline rosse e le ho salutate sconsolato.

E’ fuori dalle tracce che sorprendi in volo l’urogallo e scopri i mille colori della neve che per coloro che camminano obbedienti alla traccia è sempre, solo bianca.

Da quel giorno, se possibile, l’odio di mio padre per la neve crebbe ancora.
Avevo e ho mantenuto questa debolezza, in comune con il genitore e forse per questo tollerata in famiglia, di uscire dalle piste battute. Camminare sempre in direzione contraria è un difetto che non facilita il vivere di ogni giorno, pure non ho rimpianti, come non ne aveva mio padre, perché è fuori dalle tracce che sorprendi in volo l’urogallo e scopri i mille colori della neve che per coloro che camminano obbedienti alla traccia è sempre, solo bianca.

Tante altre volte ho avuto paura di non farcela. È successo spesso che il buio mi sorprendesse lontano da casa, lontano da ogni pista battuta, lontano da tutto. A volte mi sembrava di avere già passato la porta della piccola cucina che mi accoglieva calda e ospitale. Vedevo mia madre e il volto arrossato di mio fratello vicino alla stufa che mi scherniva per quella mia ennesima disavventura. Mi vedevo tremante allungare le mani verso la tazza del caffelatte. Ma poi la realtà chiamava e alla porta di casa mancavano ancora tanti chilometri.  In quei momenti ho insegnato al cervello a comandare e al corpo ad obbedire. Avanti, ancora avanti, un passo e un passo e dieci e mille passi fino a che le luci di casa apparivano per davvero, allora potevo finalmente sciogliere quelle lacrime ricacciate in gola per tutto il tempo.

Non avevo ancora compiuto dieci anni quell’inverno, quando mia madre per distogliermi da altri pericolosi giochi mi comprò i miei primi sci da fondo: ogni giorno appena finita la scuola ero sempre pronto per andare. La pratica dello sci di fondo soddisfaceva in pieno la mia ricerca di solitudine, potevo rinchiudermi in un mondo di fatica dove non permettevo l’accesso a nessuno, anni dopo, quando ne feci una professione e per lavoro dovetti condividere quella solitudine provai qualcosa di molto simile alla vergogna della prostituzione. L’unica persona che ho sempre accettato con gioia al mio fianco è stato mio padre, con lui avrei potuto andare in capo al mondo e sentirmi sempre a casa. Non sono state molte le occasioni in cui il mio genitore mi ha accompagnato sugli sci e io le ricordo tutte, una ad una dalla prima all’ultima, come se fosse trascorso un solo inverno dalla prima volta e non più di cinquant’anni.

Anche quel pomeriggio del 23 dicembre del ’76 ero più veloce di mio padre, lui dovette sgolarsi per indurmi ad aspettarlo. Assieme arrivammo alla grande stalla semisepolta dalla neve.

La prima volta andavo per i quattro anni, allacciati agli scarponi avevo i legni di frassino sgrezzati dal padre con la perizia del miglior maestro d’ascia dell’arsenale di Venezia, l’ultima ero già uomo adulto e maestro di sci e lui era già un vecchio, curvato nel fisico dalle fatiche di muratore ma ancora bambino negli occhi sempre in cerca di nuovi fuoripista nel bianco immacolato.
In tutti quegli anni mio padre non ha mai cambiato il suo modo di andare sugli sci, è sempre rimasto fedele allo stile della sua giovinezza; rare curve, piedi uniti e per fermarsi cristiania oppure salto d’arresto. Quanto ho invidiato da bambino la traccia che lasciava dietro di sé il padre, così diritta e sottile, perfetta da sembrare un taglio capolavoro di Fontana su di una tela bianca. Con quanta nostalgia ricordo quel pomeriggio di fine inverno quando, arrivati in fondo al pendio, ci voltammo a guardare le nostre tracce e per la prima volta si sovrapponevano perfettamente uguali.

Poi il tempo trascorse in fretta, come sempre troppo in fretta, il bambino diventato oramai ragazzo si divertiva a lasciare indietro il genitore cui gli anni e le fatiche incominciavano a pesare come lo zaino dei cunei di ferro che si usano per spaccare la legna. Anche quel pomeriggio del 23 dicembre del ’76 ero più veloce di mio padre, lui dovette sgolarsi per indurmi ad aspettarlo.
Assieme arrivammo alla grande stalla semisepolta dalla neve, dentro il malgaro ci aveva lasciato una bella quantità di letame, concime prezioso come l’oro per i nostri campi. Mio padre ne era soddisfatto: “Appena la neve ce lo permetterà verremo con la slitta a prendercelo”. Ci vuole la neve adatta per le slitte.

Finita l’esplorazione della stalla, vagammo ancora un po’ per il bosco. I rami dei grandi abeti carichi di neve si piegavano fino a sfiorarci il viso, regalandoci una dolcissima seppur gelida carezza. Infine decidemmo di tornare verso casa. Fu allora che un improvviso abbassamento della temperatura ci bloccò. Gli sci con la soletta di legno attaccavano, la neve faceva lo zoccolo sotto i nostri piedi. Non c’era verso di andare avanti. Ogni pochi metri eravamo costretti a togliere gli sci e batterli con forza usando i bastoncini, che per nostra fortuna erano fatti di solido metallo non ancora sostituito dalle immancabili fibre di carbonio. La notte arrivò puntuale quanto improvvisa, noi impiegammo qualche minuto di troppo per averne contezza e solo il freddo, che con il buio si fece ancora più penetrante, ci mise in allarme e ci indusse, per quanto possibile, ad aumentare il ritmo.

Sapevo cosa significasse per lui quella apparizione, me ne aveva parlato una volta, la sola volta in cui mi disse della sua guerra combattuta dalla parte sbagliata.

Le prime stelle punteggiavano già il cielo e noi eravamo ancora lontani, troppo lontani da casa. Il tempo trascorreva in fretta, il freddo faceva lacrimare gli occhi e poi ghiacciava le lacrime. All’inizio pensai che la colpa fosse di quelle lacrime ghiacciate, ma fu mio padre indicando con la mano le cime del Gruppo di Brenta a dirmi che così non era. Un mantello vuoto, verde, poi viola, quindi azzurro, infine rosso come il sangue appena versato ondeggiava stretto al blu della notte come in una danza di spettri, ora vicino ora distante, laggiù sopra le vette lontane.
Per la sola e unica volta in tutta la vita sentii incrinarsi di pianto la voce di mio padre: “L’aurora boreale”, balbettò, rivolgendosi più a sé stesso che verso di me.

Sapevo cosa significasse per lui quella apparizione, me ne aveva parlato una volta, la sola volta in cui mi disse della sua guerra combattuta dalla parte sbagliata. La volta in cui mi volle insegnare come tornare vivo da una guerra, nel caso mi fosse capitato di doverci andare come era capitato a lui: “Ricordati: in guerra non devi mai uccidere intenzionalmente, meglio ancora, non devi mai uccidere, perché se uccidi accetti di essere ucciso, che questo ti può capitare comunque, ma allora sarebbe come un incidente sul lavoro, come può capitare di cadere da un ponteggio – e a lui era capitato di cadere da un ponteggio – se non uccidi dall’altra parte lo sanno e come fai tu, anche loro cercheranno di non ucciderti, è così che si torna a casa che è la sola cosa importante. Nel mio plotone abbiamo ucciso una volta sola intenzionalmente. Era untersturmfhürer, urlava troppo e sparava sempre per uccidere. Aveva scelto di essere ucciso”.

Nel ’39 poco prima di partire per quella guerra con indosso la divisa della Wehrmacht, mio padre aveva visto il cielo prendere il colore del sangue e in quel momento non poteva che trovarci un altro triste presagio.
Come Dio volle arrivammo al Passo, voltammo le spalle a quell’inquietante visione e finalmente gli sci ripresero a correre. Arrivati a casa mio padre, con gli occhi, mi chiese di tacere. Mio padre parlava con gli occhi.
Di disgrazie e guerre ne sono successe tante da quel giorno e continuano a succedere ma, nonostante la paura antica dei nostri vecchi per i fenomeni della natura, il cielo non ne è la causa, è la cattiveria degli uomini la causa, la bramosia di potere li rende i carnefici del Creato, per questo in queste ore invernali osservo il cielo impazzire di rosso e blu e verde e non ho paura e mi accoccolo accanto al ricordo di mio padre, sciatore dalle linee dritte.
Nulla di male può accadermi qui.

Andrea Nicolussi Golo

Andrea Nicolussi Golo

Responsabile dello sportello Linguistico della Magnifica Comunità degli Altipiani Cimbri, collabora con l’Istituto Cimbro di Luserna/Lusérnar Kulturinstitut. Ha pubblicato il libro di racconti Guardiano di Stelle e di vacche (2010), e i due romanzi Diritto di Memoria (2014) e Di roccia di neve di piombo (2016), quest’ultimo finalista e segnalato ai Premi ITAS, Rigoni Stern e Leggimontagna. Nel 2011 è stato insignito del premio “Ostana scritture in lingua madre”. Ha vinto numerosi concorsi di poesia sia in lingua cimbra che in italiano e nel 2013, su autorizzazione Einaudi, ha dato alle stampe la traduzione in lingua cimbra del capolavoro di Mario Rigoni Stern Storia di Tönle. Nel 2016 ha pubblicato la traduzione in cimbro de "Il piccolo principe", nel 2018 la versione integrale di "Pinocchio" e nel 2021 "Il sergente nella neve". Per l’Istituto Cimbro di Luserna ha pubblicato varie favole per bambini.


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9 commenti:

  1. Tiziano Togni ha detto:

    Testo molto bello e significativo. Spero che tu voglia continuare a scrivere. Proprio in periodi “bui”, come quello odierno, è indispensabile trasmettere, specie alle nuove generazioni, il pensiero e le idee di chi ha maggiore cognizione della realtà. Complimenti e buone feste

    1. Andrea Andrea ha detto:

      Grazie Tiziano

  2. Marco Rossignoli Marco Rossignoli ha detto:

    Ti leggo sempre volentieri, mi fa sognare. Ciao

    1. Andrea Andrea ha detto:

      Grazie Marco

  3. Vittorio Vittorio ha detto:

    Mi vengono in mente due cose dalla lettura di questo testo: la canzone di De Andrè sulla guerra di Piero, un inno pacifista che chiede all’uomo di non uccidere. Mai come ora serve smettere di fare la guerra e tornare alla intelligenza della diplomazia che in fin dei conti molti soldati comprendevano sul campo subendo la stupidità dei generali;
    la seconda riguarda la “meditazione” che viene richiamata parlando dei tagli di Lucio Fontana, perché quel taglio, quella linea retta, oltre che aprire ad una attesa, si pone nella materia alla “conquista dello spazio”, che è il meglio che si può regalare ad un bimbo o un ragazzo.
    Sono due temi di grande attualità e di grande necessità, perché il primo aspira alla pace, per tutti, il secondo alla felicità che dovrebbe essere anch’essa per tutti.
    Grazie

    1. Andrea Andrea ha detto:

      Grazie Vittorio per questa sua preziosa riflessione.

  4. Rosalba ha detto:

    Solo il profondo contatto con la natura fa comprendere l’inusitata stupida follia della guerra. La vita e la morte sono in sfida costante, ma l’ uomo non dovrebbe comandare il gioco fermando a suo piacere il dado che rotola

  5. Duso Giuseppe ha detto:

    In una società che si sta’ perdendo il tuo scritto riempie il cuore. Perché è vero a volte occorre perdersi per ritrovarsi. Mi fa piacere che condividiamo la stessa passione per lo sci di fondo. Ciao e buona vita.

    1. Andrea Andrea ha detto:

      Grazie Giuseppe

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