Mentre volavo udii l’urlo di Liv, che si trovava dietro di me, perforare le rocce e il cielo:
«Nooo…»
Ero caduto sulla schiena e, malgrado avessi in spalla lo zaino, che in qualche modo avrebbe dovuto proteggermi, il dolore mi fece mancare il respiro. Dal bordo della fossa prima si affacciò Enea, poi Liv. Io non avevo né la forza né il coraggio di muovermi. Scesero e lei mi aiutò ad alzarmi mentre Enea cercava di leccarmi la faccia. Avevo un dolore terribile all’osso iliaco, nella cui zona si formò poi un ematoma che si sarebbe assorbito solo dopo sei mesi. Prima di cominciare la discesa, per proteggerla da eventuali colpi, avevo messo nello zaino la mia Olympus; dopo la caduta, appena capii che potevo camminare, aprii lo zaino e constatai che l’obiettivo, uno zoom ad alta focale, era stato strappato dal corpo macchina, da cui uscivano, come budella dalla pancia di un animale ferito a morte, fasci di finissimi fili elettrici. Evidentemente la reflex era stata schiacciata tra la roccia dove ero caduto e la mia schiena. Quello era stato l’ultimo atto del suo processo di distruzione, a cui seguì la decisione, dettata anche dalla mancanza di soldi, di non comprarne più un’altra.
“Sulla fotografia” è il titolo di un saggio di Susan Sontag del 1977, lo lessi l’anno dopo, quando uscì in Italia per i tipi dell’Einaudi. Non lo trovo più ma ricordo che sulla copertina bianca c’era un quadrato rosso e che il primo capitolo si chiamava “Nella grotta di Platone”. Non sto lì a menarvela con la filosofia platonica, anche perché non sono in grado di farlo, ma se una scrittrice come Susan Sontag comincia col mito della caverna si capisce subito dove andrà a parare: la fotografia non rappresenta la realtà, ne è solo un’immagine, una mera parvenza.
Ricordo che allora avevo una Comet Bencini da pochi soldi ereditata da mio padre, la stessa che, ho poi saputo quarant’anni dopo leggendo “Pianura” di Marco Belpoliti, aveva usato Luigi Ghirri per iniziare. Mentre scrivevo queste righe sono andato a rileggermi il capitolo di “Pianura” dedicato a Luigi Ghirri ma non ho trovato dove Belpoliti dice che Ghirri aveva una Comet Bencini, eppure non me lo sono inventato, sono sicuro di averlo letto da qualche parte. Comunque sia, la Comet Bencini è l’unica cosa che, come fotografo, ho in comune con Luigi Ghirri.
L’Olympus l’avevo comprata nel 2016 in un negozietto di Busto Arsizio, avevo preso anche due zoom: uno che andava dal grand’angolo a un piccolo tele, l’altro con focali più lunghe. Era una bella macchina, leggera, robusta, con un sacco di opzioni, a dire la verità un po’ troppo complicate da usare, ma anche in automatico faceva delle belle fotografie, cioè a fuoco e con la giusta esposizione.
Buongiorno, bellissimo articolo…..l’autore l’ho conosciuto a una presentazione di un suo libro…è una persona che starei ad ascoltare per ore….
Grazie Paolo, devi avermi preso in una giornata di vena perché sono uno che non sa mai cosa dire.
Alberto
Ma che bello leggere la descrizione della parabola che ho vissuto anch’io, riguardo alla montagna, ma anche alla fotografia.
E ora capisco perchè ho sempre privilegiato le foto con il soggetto di spalle, quell’inquadratura ti trascina dentro all’immagine, scuote qualcosa dentro.
Grazie della bella condivisione.
Grazie Roberto, fotografare è bello, ma interrompe il dialogo con le cose, nel nostro caso con la montagna, che è più bella.
ma che bello questo racconto, grazie!
Grazie Chiara, e buone montagne:
Alberto
Leggo questo bell’articolo in pausa pranzo, a Baveno dove temporaneamente lavoro, proprio ai piedi della tua Val Grande.
Marina
Grazie Marina, lavori in un bel posto, dove dal lago vedi le montagne (della Valgrande) di cui forse mi sono un po’ appropriato scrivendone, ma non ne vado fiero.
Alberto
Sì, bello il racconto e bravo l’autore che una volta ho incrociato sullo spigolo della Rossa al Devero.
Fotografare una persona di spalle è dare maggior spazio e significato alla montagna e al suo ambiente, dove quella persona è solo ospite.
Quella persona, che non conosco, mi invita però a incuriosirmi e ad osservare con maggior attenzione.
Grazie Beppe, che bello lo Spigolo della Rossa, non so quante volte l’ho fatto. Mi sembra che ci vada meno gente di una volta, forse gli alpinisti di oggi lo snobbano, ma non è certo diventato più facile. Una volta al rifugio Castiglioni vendevano una cartolina in bianco e nero con una foto del Luciano Tenderini sul “Caimano”. Ho tentato più volte di farne una uguale, ma così bella non mi è mai riuscita.
Alberto
Anche Luciano ho conosciuto, come la moglie Mirella. In grigna.
Siamo gli ultimi alpinisti che fra di loro si conoscono tutti. Non sarà mai più così.
A.
E’ un racconto bellissimo, profondo. Con autentica semplicità ci apre la mente e indica allo sguardo il senso del mondo: pura bellezza.