Ogni età ha la sua buona scusa, e buona stella, per fare un errore: a sei anni sei scusato perché sei ancora molto piccolo, a dodici vai compreso perché sei nella preadolescenza, a diciotto sei indiscutibilmente un adolescente. E a ventiquattro? A ventiquattro anni non hai più scuse. Non ne hai bisogno: sei talmente spocchiosamente sicuro di te stesso, da pensare di poter spaccare il mondo. O almeno di girarlo.
E così mi ritrovo in Cile, a Pucon, per fare un’escursione al vulcano e poi ripartire. Ma qualcosa in questo paese mi invita a rimandare la partenza.
Le empanadas ai frutti di mare fatte a mano. Ancora un giorno.
La baracchetta dove bevo il caffè la mattina. Ancora un giorno.
L’idea di fare ancora un giro intorno al vulcano. Di farlo da sola chiaramente. Un punto in più alla presunta onnipotenza della gioventù.
Parto di buon’ora, ammiro il paesaggio, non un essere umano in tutta la giornata, ma neanche bovini al pascolo, aquile nel cielo, teschi di anfibi preistorici, nulla. Il silenzio regna sovrano e tutto mi sembra magnifico, soprattutto quando arrivo a quello che, nei miei calcoli, dovrebbe essere il bivio verso il sentiero che mi riporterà all’uscita. Scendo e scendo e scendo ancora, pensando che, anche nell’assurda ipotesi mi perdessi, mai e poi mai potrei rifare questa strada in salita, ed arrivo all’uscita del parco.
Ma non è quella da cui sono partita. Dove diamine sono finita? E’ tutto deserto, ingiallito dall’arsura, abbandonato da qualsiasi forma di vita. Una cartina con un inequivocabile bollino rosso mi indica dove sono arrivata, probabilmente all’ingresso del parco che usavano cento anni fa. In ogni caso incredibilmente lontana da dove sono partita.
Perfetto. Sono in mezzo al nulla. E ora come torno a Pucon?
Indietro non si torna mai, quindi decido di continuare la strada in discesa finché io abbia vita (l’acqua è finita già da un pezzo). Prima o poi, forse, tornerò alla civiltà. Ma chissà quando, visto che sta per tramontare anche il sole. Immaginando la Farnesina telefonare a casa per comunicare che hanno trovato il mio corpo secco e disidratato, continuo la mia camminata sotto il cielo del Sud America per un tempo non definito. Mi ritrovo a parlare da sola e ad applaudire a me stessa per essermi messa in questo pasticcio, quando un suono leggiadro, portato dal vento, attira la mia attenzione. Lo inseguo. E’ più incantevole del canto degli uccellini all’alba e più irreale delle fanfare della carrozza di Cenerentola. E’ il suono della mia salvezza, la musica del miracolo. In quel nulla totale, qualcuno sta facendo funzionare una motosega.
Rincorro questa musica celestiale per ritrovarmi alle spalle di un uomo che, per l’appunto, sta segando degli alberi nel bosco, chiedendomi per un attimo se comunicare con uno sconosciuto con una motosega in mano non sia una situazione un po’ spiacevole.
“Perdona? Disculpa?”. Non ho ancora capito la differenza tra i due convenevoli. Gli trotterello intorno, la mia vocina coperta dal suono delle fanfare. Mi vede. Con lo stesso sguardo di Maria Maddalena nell’Annunciazione, cerca di capire le mie poche parole di spagnolo, girandosi per un attimo a contemplare la cima del vulcano, come se stesse parlando con un folletto sceso direttamente da lì. Rispondendo parole per me incomprensibili, mi invita ad entrare a casa sua. Quel che segue è pane rustico, marmellata fatta in casa, caffè e acqua, acqua e ancora acqua, ascoltando un vecchio signore raccontare le storie del vulcano.
Un suo amico mi verrà poi a prendere con un vecchio taxi per riportarmi, sana e salva, a Pucon. Forse è ora di spostarsi.