testo e foto di Alessandro Galloppa / Cupra Marittima (AP)
Pendici dell’Etna. Alle tue spalle piazze vuote e colme di luce abbacinante, pullman inchiodati alle fermate ansimanti con i condizionatori al massimo, mucchi di cenere lavica ai bordi delle strade, le strutture delle luminarie per la festa del patrono come ragnatele bianche con le lampadine spente per rugiada. Cos’altro?
La strada asfaltata che dalle pendici sale fino al rifugio: la Mareneve ha questo nome che sa di legami tra cose distanti, di passaggi di stato, di metamorfosi; mentre l’hai percorsa canticchiavi un pezzo di Battiato e ti sei trovato tra nere muraglie, colate di lava che si sono sovrapposte decenni dopo decenni un’eruzione dopo l’altra. Il classico paesaggio lunare hai pensato, ma poi ti sei accorto di essere caduto come in contraddizione: paesaggi lunari ti passano in rassegna dalla lunga schiena dell’Amaro della Majella fino alle orbite cave della valle del Pilato. Bianchi deserti calcarei che sono il contrario di questo, nero e fertile com’è tra vigne e ulivi, fichi d’India e frangipane.
A lato strada appare subito il sentiero, poco prima del rifugio. Passi che affondano leggeri in terra nera, betulle come candide braccia alzate a salutare il sole alto nel cielo. Oltre le betulle il sentiero si scopre e mentre cominci a sudare sotto il sole ti stupisci di come le cose si stanno rovesciando: hai in mente questo yin e yang di pietra lavica e calcare massiccio, hai il bianco sterile e il nero fertile, dal lato oscuro della luna penzolano capperi e pomodori maturi.
E poi hai questa montagna: Idda ovvero “Lei” come la chiamano con il loro bel dialetto i siciliani. Per raggiungere la vetta cioè il cratere avresti l’imbarazzo della scelta: tra guide, ascese mezze in jeep e mezze a piedi, i siti che offrono servizi per conquistarla si sprecano. Ci stavi facendo un pensiero poi hai letto quel fatto curioso, cioè che l’Etna è cresciuto di circa 30 metri: è successo che con gli ultimi fenomeni eruttivi il cratere di sud est è diventato più alto, è arrivato a quota 3357 superando così il cratere di nord est che è rimasto al palo dei suoi 3326. Ti saresti così ritrovato a salire verso una vetta che già domani o dopodomani potrebbe non essere più la vetta, perché magari Idda avrà voluto accovacciarsi un po’ di più o alzare una delle sue ciocche brune un po’ più in là. Fatto sta che ora sei salito abbastanza per scorgere il cono nero, ti starà a non più di due chilometri in linea d’aria mentre tutto il fondovalle digrada fino a inchiodarsi sulla linea azzurra dello Ionio.
Proprio ieri te ne stavi a prendere il sole su una di quelle spiagge nere con i ciottoli metamorfici tondi e grandi come meloni. Idda era anche lì, anche quella spiaggia stava sulla sua pellaccia che poi continuava a scendere dentro al mare; le sue colate più o meno antiche sprofondavano ancora con le forme di lingue e gambe e tentacoli chissà fino a dove nel fondo del mare.
Cenere lavica sulla Mareneve
Capisci allora di stare addosso a questa cosa che cresce e avanza da due fronti, da due estremità. Da una parte il cratere che sale verso il cielo e dall’altra le propaggini che vanno ingoiando terra e mare. Capisci che non potresti comunque raggiungerle: sono in continua mutazione, e anche riuscissi a camminare per millenni non raggiungeresti mai la sua forma definitiva semplicemente perché Idda una forma definitiva non l’avrà mai. Stando così le cose la vetta non può essere la tua meta, ecco perché oggi hai scelto di camminare fin qua, a quota intermedia.
Gli alberi hanno lasciato spazio a grandi cespugli di camomilla. Poi più in alto i cuscini di astragalo e saponaria scatenano quella sensazione da paesaggio di mondi alieni. Sullo sfondo lattiginoso e carico d’afa è visibile la linea del cono del vulcano.
Idda sta muta oggi, giusto un flebile pennacchio che sfuma nell’azzurro. Tra due minuti o due anni – cosa importa? – può ricominciare il suo discorso lasciato interrotto. É da lì, da quella bocca, che si può accedere ai suoi pensieri invisibili, e si sa: dalle bocche i pensieri prendono forma e diventano discorsi e concetti e così Idda fa con i suoi pensieri, con quel mare inconscio e informe che le nuota nelle viscere: vomita il suo flusso di coscienza, il magma che andrà a nutrire e modellare le sue estremità dalla terra al cielo. E la sua vetta guadagnerà altre decine di metri, e le sue gambe dai piedi palmati, i suoi tentacoli, le sue radici affonderanno ancora dove l’azzurro si comprime nel cobalto.
Devi allora ripensare i termini della questione, devi dimenticare che questa sia una montagna come le altre. Meglio ancora dimenticare che sia una montagna, che non ci sia un alto e un basso, una vetta e una base.
Idda è il contrario di una candela che si consuma a entrambe le estremità, deve allora somigliare a qualcosa che va espandendosi sia da una parte che dall’altra: così, siccome fa un caldo cane e non vuoi perdere troppo tempo, vai subito a parare in terre geometriche: Idda può essere pensata come una retta con i suoi estremi che vanno e che crescono chissà fino a dove e chissà fino a quando.
Hai rappresentato quei suoi estremi tante di quelle volte: li hai fatti con la penna o la matita come un tratteggio nemmeno troppo lungo.
Tanto si capiva come sarebbe andata: un tratteggio sa di indefinito, qualcosa che appare e scompare, come le gobbe di un mostro marino squamato d’inchiostro che nuota sotto il pelo della pagina bianca. Un tratteggio insomma sa di indefinito e nel caso della retta prelude all’infinito. E a chi ti dice che una retta è troppo striminzita per rappresentare una montagna dirai che in ogni suo tratto per quanto piccolo è densa di numeri quanto una montagna lo è della sua materia. Ci puoi beccare addirittura quei punti di accumulazione dove la curva della sua energia si addensa e si comprime, dove la rabbia di Idda diventata asintotica trabocca ed erutta.
Tracciata la retta devi comunque avere un riferimento: hai bisogno del tuo zero insomma. Sarà poco, ma in questi casi può significare tutto. Hai messo la tua montagna, la tua creatura, lungo un orizzonte materico densamente popolato. Per avere il tuo zero, lo devi far necessariamente attraversare a perpendicolo da un’altra retta tutt’altro che tellurica, verticale, forse abissale, conficcata nel cuore di un luminoso cratere di silenzio, sicuramente orientata verso la sfera di cieli azzurri e nuovi.
Idda all’orizzonte
La bocca di Idda e la depressione della Valle del Bove
Ora che stai salendo lungo la cresta della Serra delle Concazze, la Valle del Bove ti si apre come un abisso colmo della luce estiva. Ti vengono in mente le immagini trasmesse dalle sonde marziane: le rocce brulle, le ombre delle attrezzature delle sonde proiettate sul terreno. La valle è una profonda depressione dal fondo quasi piatto, si vedono delle scarpate molto ripide alte svariate centinaia di metri. Provi a immaginare le cascate di lava che hanno modellato quei salti. Tutto intorno si alzano i dicchi, gli alti pinnacoli di basalto. Il vento si rafforza, ma il passo è sicuro sulla superficie di questa viva luna dalla carne nera. Ti torna in mente quella canzone di Battiato: è dall’altro giorno che ti è rimasta in testa, quando sei andato a Milo, il piccolo paese alle pendici dell’Etna dove il musicista ha vissuto per molto tempo fino alla morte. Non ci hai messo molto a trovare la sua ultima residenza. Sul portoncino c’erano dei fiori freschi, da quando è mancato c’è sempre qualcuno che va lì a posarli.
É lo stesso portoncino con le scalette e la ringhiera che si vede nel videoclip con Carmen Consoli, quello dove se ne vanno in motocicletta sulla Mareneve: le due voci cantano all’unisono, sulla stessa tonalità, fin quasi a confondersi; le tute nere da motociclista li rendono anonimi e indistinguibili, due particelle elementari che gareggiano e si rincorrono nella danza dell’entanglement, su verso Idda e la sua bocca.
Oltre il muro di cinta hai visto gli alti alberi del giardino e anche uno spigolo della veranda. Sei sul punto più alto della cresta e finalmente a forza di rimuginare hai trovato il tuo zero. Franco Battiato nominava spesso quella veranda: è dove al mattino presto meditava, era un po’ il campo base da dove partivano le escursioni del suo pensiero, da dove si irradiavano le linee di viaggi mistici e creativi.
É in quella veranda, ha raccontato, che ha avuto come in una illuminazione netta e improvvisa l’idea chiara e completa di quel suo pezzo, “L’ombra della luce”, che forse è uno dei pochi che ti fa venire i brividi anche dopo il milionesimo ascolto.
La linea melodica del cantato sembra possedere una gravità propria, una forza capace di catturare e trasportare verso quelle “zone più alte, in uno dei tuoi regni di quiete” citate nel testo. Il titolo sembra un ossimoro o una contraddizione in termini: la luce, la radiazione luminosa non può avere un’ombra, non nel mondo fisico almeno; e allora l’unica soluzione è proiettarsi in una dimensione altra e ortogonale: la contraddizione diventa analogia, aiuta a sfiorare almeno l’idea di cosa possa esserci dall’altra parte.
Non può che passare per quella casa di Milo la retta verticale che andavi cercando: da un estremo l’infinito dell’intelletto creativo dell’artista e dall’altro il suo spirito orientato e teso verso cieli trascendenti.
Stai scendendo per chiudere l’anello al rifugio. Costeggi le colate del 1928 poi il sentiero si cancella in un canalone, il piede affonda nei molli depositi di ghiaia lavica. Qua e là gialli ciuffi di piante pioniere. Questo tratto ha un che di limbico, di transitorio. Alle spalle i bastioni di cresta che fanno da scudo al cono del vulcano, davanti a te dove finisce la ghiaia si vede la linea del bosco, prima i faggi poi più sotto le betulle con le foglie agitate dal vento. Domani aggiungerai l’ultimo tassello al tuo viaggio. Andrai giù, vicino al mare, dove sulla pelle di Idda hanno costruito un piccolo cimitero. Troverai le lapidi a terra coperte da uno spesso strato di cenere lavica: Idda non molla, continuerà a mangiare e ingoiare e digerire, a fondere e forgiare e trasformare. Ma qui è come se la sua fame si fosse infranta contro un muro: questa madre dal cuore di mille atomiche oltre la materia non può più nulla.
Chiederai al custode dov’è la tomba del Maestro Battiato e lui ti dirà con esattezza quale corridoio prendere, quali scale salire e dove svoltare per arrivare alla cappellina di famiglia. Lì troverai una lapide di una semplicità disarmante: nessuna foto, nessun epitaffio. Solo cognome e nome, Battiato Francesco. Data di nascita, data di morte. Come per dire che la morte non è che un dettaglio: uno zero posto alla metà tra l’uno e l’altro infinito.