Racconto

SACUIDIC, UN CASTELLO TRA I BOSCHI

Doveva essere una semplice passeggiata alla ricerca di un posto dove camminare evitando le piste, invece è stata una bella escursione densa di storia e di magica regalata dalla natura.

testo e foto di Paola Cosolo Marangon

15/05/2022
9 min
Mi sono alzata al suono del torrente, ho la fortuna di avere la mia casetta di montagna appoggiata sulle rive del torrente Tolina.

Oggi garriva proprio, tanto che sono uscita sul terrazzo e ho guardato l’acqua che scorreva querula, quasi festosa. Sembra aprile, mi sono detta. I raggi del sole scaldano già e gli uccellini si rincorrono davvero come fosse primavera. La neve è quasi del tutto sciolta, non so se essere triste o lieta; un paio di leccate bianche rivestono le sommità del Tiarfin e si insinuano sulla forcella Giaf, ricoprono la vasta Val di Suola ma per il resto domina il marrone dei rami secchi e il verde delle conifere.
Bisogna scovare qualche angolo ombreggiato per trovare un po’ di ghiaccio o sollevare lo sguardo verso le piste da sci tenute in vita dai cannoni che sparano azoto liquido per consentire un manto sufficiente per sciare.

Il cambio climatico, non c’è dubbio. E pensare che solo un mese fa mi beavo davanti ai ricami dei cristalli di ghiaccio, alle pinete ricoperte da quel manto candido. Una poesia, Forni di Sopra sotto la neve è qualcosa di fantastico.
Non starò tutta la mattina a guardare il ruscello, le gambe hanno voglia di andare solo che, ahimè, vista la stagione non c’è molto da scegliere.
I miei percorsi abituali in quota sono dedicati alle piste, la Val di Suola è proibitiva per le frequenti valanghe, lassù la neve resiste e il Flaiban Pacherni è ancora sommerso, solitamente fino a maggio non si scrolla di dosso il freddo dell’inverno.
Non mi rimane che qualche passeggiata a valle: tolta la zona di Santaviela e Parsilan che sono dedicate allo sci di fondo, non ho troppa scelta.

Non mi lascio intristire da queste difficoltà e, calzati gli amati scarponi, mi incammino verso l’abitato di Andrazza. Passo davanti al cimitero, durante lo scorso anno più di un amico è andato avanti falcidiato dal Covid o, come Vanni Patugo, tradito dalla roccia del Cridola.
Entro un attimo a salutare, è un rito che compio spesso, con l’andare degli anni più che trovarsi al bar per un bicchiere vado a incontrarli lì alcuni miei maestri di arrampicata, gli amici di mio padre, qualche altro “andato avanti” prematuramente.
Il cimitero è ordinato, silenzioso ma non triste e le tombe allineate danno un senso di pace e quiete. Serve di tanto in tanto fermarsi e starci per un po’, il tempo di guardare una foto, ricordare l’ultimo incontro, continuare i progetti fatti assieme, prendersi lo spazio di una sosta e poi salutare e via.
E’ un modo per farli stare con noi i nostri amici, trovare un momento per scambiare due parole rivolte alla lapide o al cielo, poco importa. Portarli nel cuore è continuare a farli vivere.

Proseguo lungo il sentiero che affianca il Tagliamento o, come piace chiamarlo qui, il Tuliment.
Arrivata in zona Saliet saluto i cavalli che mi guardano con quel loro fare sornione e intelligente, hanno il pelo folto e lungo e sembrano felici. Non so dire il perché ma mi danno proprio la sensazione di gioia e felicità, gli occhi buoni, il lento muovere della testa e l’oscillare puntuale della lunga coda, una iniezione di salutare positività. Salgo lungo la strada asfaltata fino alla via Nazionale e da qui mi dirigo verso la sede della Protezione civile, verso il vasto bosco di faggi e abete rosso. Qua e là chiazze di neve ghiacciata mi ricordano che è ancora inverno anche se il tepore del sole farebbe pensare diversamente. L’aria è pulita, nel bosco posso abbassare la mascherina e riempirmi i polmoni. Le narici vanno a cercare odori che giungono prepotenti: quello delle foglie marce, degli aghi di pino, della terra che si riscalda al sole. Respiro più profondamente, sembra un bellissimo regalo poterlo fare.
Mi sono lasciata condurre dalle gambe e non avevo pensato a una meta in particolare, solo andando mi sono resa conto che il sentiero preso mi sta conducendo verso il castello di Sacuidic.

La storia di questo rudere è affascinante, soprattutto la vicenda legata al suo ritrovamento. Oggi il restauro ce lo fa vedere come una rocca fortificata, ma per tirarlo fuori dal bosco e dalla terra ci sono state vicissitudini inenarrabili.
Quando ero piccola ascoltavo i racconti dei vecchi del paese, c’erano le solite favole che parlavano di principi e principesse e di un fantomatico castello dei Savorgnani, peccato che nessuno lo avesse mai visto.
Non sai mai se la fantasia popolare porta a ingigantire le cose, ogni tanto per spaventare i bambini un orco o un cattivo castellano possono essere utili, o almeno lo erano all’epoca.

I documenti ritrovati nelle pievi parlavano del castello ma come tutte le cose, quando il bosco sovrasta e non si trovano tracce in superficie, risulta davvero difficile crederci. Non per i fornesi però: donne e uomini tostissimi, grazie a Timilìn (Alfio Anziutti per l’anagrafe) e alla sua caparbietà, il sito di Sacuidic è stato frutto di scavi e il castello ha visto la luce. Il vero e proprio ritrovamento lo si deve al gruppo For da Difiendi e all’università di Venezia con i suoi studenti di archeologia[1].
Il nome del luogo non è chiaro, alcuni sostengono che si riferisca al diavolo (ecco le storie delle vecchie del paese che tornano in auge). Prendendo a prestito la lingua slovena Za Hulicu potrebbe significare “il luogo del diavolo”, ma che c’entra lo sloveno con la Carnia, dico io? Vero è che la casa del diavolo in fornese si dice cià dal diaul, ma mi sembra un po’ tirata per i capelli.

Con ogni probabilità il nome si riferisce al temine latino sacculus vidi, cioè luogo di appostamento, vedetta.
Arrivando al maniero si trova un cumulo di pietre ben impostate, si può immaginare una bella fortificazione e si immagina anche la struttura di legno che la sovrastava.
Si presume che Sacuidic fosse un castello che poteva ospitare una ventina di persone: cinque, sei di origine nobile, feudatari o capitani dei signori di Nonta di Socchieve, e una quindicina di armigeri o servi, eretto fra il XII e XIV secolo, dove, negli ultimi tempi, si svolgeva anche una lucrosa attività di zecca clandestina. Fra i reperti venuti alla luce, conservati dopo essere stati sottoposti ad opera di restauro, alcuni lingotti di rame e tondelli monetali senza conio, che servivano appunto per battere moneta falsa[2].
Una zecca clandestina in poche parole.
Un incendio aveva posto fine a tutto il lavoro, c’è ancora un bel po’ da scoprire e forse altri reperti potrebbero essere nascosti sotto le conifere, sul greto del Tagliamento e nelle zone circostanti.
A me, escursionista vogliosa di sgranchirmi, piace soprattutto lo scenario che si apre attorno.

Il silenzio è interrotto dal canto degli uccelli e dal monotono scorrere dell’acqua del torrente Ruodia che scorre accanto ai ruderi.
Il pannello illustrativo collocato dagli storici mostra le varie fasi di ritrovamento, il presunto utilizzo, la suddivisione degli spazi, molto interessante ma io vengo attratta maggiormente da piccoli miracoli della natura circostante, come la timida fioritura di un anemone epatica che sfida i rigori della notte e apre la sua corolla viola quasi a testimoniare che si, manca poco alla buona stagione.
Salgo i gradini in ferro che i restauratori hanno ricostruito, mi porto fino sulla sommità del castello e mi perdo a guardare il cielo e il volo dei gracchi che planano a cercare qualcosa da mangiare.
Una poiana allarga le ali e sembra giocare con i venti in quota, fa larghi giri nella speranza di vedere qualche topolino o qualche serpentello, è evidentemente affamata.
Il suo grido penetrante ha un non so che di lugubre, ho sempre temuto il verso degli uccelli rapaci, quasi potessi essere una eventuale preda pure io.

Mi aggiro ancora un po’ tra le rovine e poi prendo la discesa che conduce alle rive del torrente. Si scende più a sedere che a gambe, il sentiero che porta al Saliet attraversando i prati e il bosco è ripido e il ghiaccio che si nasconde tra fango e pietre rende molto scivoloso il tratto che porta al fiume. Ci vorrebbero alcune corde di ancoraggio, devo ricordarlo ai colleghi del CAI, dovremmo fare un intervento di manutenzione.
Arrivata al piano, cammino in una zona ombreggiata e la neve con il suo substrato di ghiaccio è tutta lì ad accogliermi. Alcuni steli d’erba secca spuntano qua e là e larghe chiazze d’acqua si aprono nelle zone più esposte ai raggi del sole.
C’è un misto di neve ghiaccio pantano e erba, un divertimento garantito insomma.
In questa zona ci sono ancora resti di Vaia, alberi sradicati e lasciati a terra, essenze poco redditizie mi dico, altrimenti i boscaioli avrebbero già raccolto e lavorato, come hanno fatto con la maggior parte del legname schiantato dopo il ciclone.

Nelle zone più esposte alcune primule aprono timidamente le corolle e punteggiano l’erba ancora secca. Trovo altri anemoni epatica e anche i salici iniziano a metter fuori le gemme pelose e turgide. Noi li chiamiamo gattici anche se non sono salici bianchi. Nella mia fantasia di bambina li chiamavo così perché mi ricordavano il pelo morbido del gatto certosino di mia nonna. E’ stata una delusione quando ho scoperto che è il nome volgare dell’albero di salice bianco.
In zona Saliet il fango predomina e insozzo gli scarponi in maniera indecente, i piedi pesano un sacco, avete presente quando la mota si appiccica alla suola e ti sembra di non riuscire a sollevare il piede da tanto pesa? Ecco, proprio così.
Percorro il lungo tratto che mi riporta al maneggio dei cavalli, la stessa zona dell’andata, i cavalli dormono o almeno così mi pare, solitamente quando una zampa è lievemente piegata e lo zoccolo appena appoggiato a terra significa che stanno sognando.
O sono io che sogno per loro.

Ritrovo il sentiero che costeggia il Tagliamento e lo imbocco, non c’è anima viva e non ho incontrato nessuno fatta eccezione per i cavalli e gli uccelli.
Mi piace gironzolare per boschi da sola, lo faccio da sempre e mi regala quelle emozioni pure e genuine che derivano dalla semplicità e dalla meraviglia.
La neve che si va via via sciogliendo lassù rende più allegro il fiume, i sassi sono lavati e luccicano sotto lo scorrere dell’acqua limpida. Mi perdo a guardarli, potrei stare così per ore attratta dalla perfezione dei ciottoli levigati.
Mi scuote un movimento che colgo con la coda dell’occhio. Mi giro molto lentamente e alla mia destra, proprio in un anfratto del terreno, sotto le radici di un grosso salice una donnola si guarda in giro. Sembra un personaggio dei cartoni animati, il musetto all’insù, le zampine anteriori che paiono raccolte in preghiera, la coda a bilanciare l’elevazione del corpo. È bellissima, di un color marrone castagna e il bianco della pancia che la fa sembrare sporca di panna montata. La cosa più buffa sono le orecchiette tonde come quelle degli orsetti di peluche. Lunghi baffi tastano l’aria attorno.

Photo by James Armes on Unsplash

Cerco di respirare sottilmente per non disturbarla. Scende a quattro zampe e corre veloce come un lampo. Deve avere la tana nei paraggi, percorre gallerie nascoste lungo il piccolo argine, evidentemente le ha scavate lei (o lui) e sbuca a tratti, osserva un attimo attorno e corre più veloce di prima. Rimango ferma a osservare, cerco di non muovermi e la vedo sparire sotto un altro albero, poi riemerge, ha qualcosa in bocca, ripercorre la strada di prima, scompare e riappare fino a una sua probabile meta.
Riemerge senza nulla in bocca e riprendere le corse di prima sul sentiero tracciato, emerge un’altra volta con la bocca impegnata e solo allora mi accorgo che sono cuccioli, animaletti nudi senza pelo, forse si tratta di una messa al sicuro, la tana potrebbe essere allagata o presa di mira da qualcuno. Forse devono traslocare per sovraffollamento. Non so come funzionano le cose tra le donnole, so solo che rimango per lunghissimo tempo a osservare tutti i viaggi: a scansione precisa la donnola si solleva sulle zampe posteriori e scruta l’orizzonte, vuol essere sicura che non vi siano nemici. Probabilmente mi ha scambiato per un albero o cose simili.
Quando non la vedo più uscire da quella che suppongo sia la nuova tana, dove ha portato almeno cinque cuccioli, mi muovo. Sono un po’ intirizzita, è vero che non fa propriamente freddo ma rimanere nell’immobilità non consente di scaldarsi più di tanto.

Quella che doveva essere una semplice passeggiata alla ricerca di un posto dove poter camminare evitando le piste si è rivelata una bella escursione densa di storia da un lato e di magica meraviglia regalata dalla natura dall’altro.
Sfilo gli scarponi prima di salire le scale, c’è più fango che goretex sulla suola, dovrò dare una bella ripulita.
Il freddo della pietra risveglia la pianta dei piedi, rabbrividisco e pregusto una bella tazza di infuso.
Entro e vengo accolta dal caldo tepore della cucina, l’odore del legno che riveste le pareti mi coccola e mi sento pienamente a casa. Dalla finestra lancio un’ultima occhiata al Clap Varmost.

Paola Cosolo Marangon

Paola Cosolo Marangon

Vivo a Forni di Sopra (UD) sono formatrice e consulente educativa, faccio parte dello staff del CPP di Piacenza. Giornalista, scrittrice, insegnante yoga registrata (RYT/PLUS) Yoga Alliance, vicedirettrice della rivista Conflitti. Sono da sempre socia CAI sezione Forni di Sopra (UD). Tra le ultime pubblicazioni: "E non mi chiami signora bella" Meridiana, 2021; "Storia di Rosa" Forum, 2020; "Case temporanee per Montanari erranti", Temperino rosso, 2020; "La casa lungo la ferrovia" Ed. Europa, 2018; "Fai della natura la tua maestra", Erickson, 2017; "La donna che rincorreva le nuvole" Biblioteca dell'immagine, 2013, seconda edizione Gruppo GEDI "Storie di montagna" n.23, 2021.


Il mio blog | E' un blog un po' particolare dove metto le pagine della mia vita e le mie passioni, scrivo di pedagogia per i genitori, di montagna in collegamento con Altitudini che ha uno spazio speciale e mi piace un sacco, di yoga. Metto in evidenza e miei libri e tante, tante foto delle mie montagne.
Link al blog

2 commenti:

  1. Alma ha detto:

    Molto bello Paola.
    Sembra proprio di camminare con te …..

  2. Giuseppe ha detto:

    Un sogno!!

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