La ionosfera dilata lo spazio e disintegra la materia cellulare, non la incenerisce, prima l’avvizzisce, poi la scioglie fino ad evaporare nel nulla, senza carità di suono.
Il vulnus della mirabilia esistente, trova la sua ostensione apicale nella natura tenera, ingenua, adorna di specie ed elementi, attorcigliata su sé stessa, avvinghiata alle desuete riproducibilità degl’esseri viventi; in un’interazione lasca, senza soluzione di continuità, dove i germogli sono vuoti ed i sensi otturati.
Alla foce dell’aspro fiume, sempre meno impetuoso, sulle sponde degli argini artificiali ai declivi scoscesi del rilevato terreno, un irsuto e fiero Stambecco, non peccando di connaturata leggiadria, girovaga sospettoso tra i filari spogli, sgommando sul selciato irregolare tra ciuffi sparuti, pietraglia e grovigli di radici sbertucciate che esorbitano dal suolo, alle falde del boschetto che sormonta la spianata basale della vallata.
Qui la natura gli sussurra il cambiamento, lo ravvisa nell’iride languido, dentro i turgidi e vibranti padiglioni auricolari, sotto il pelo ispido, sopra la membrana del cuore. L’ecosistema è altro da sé, in transizione mutevole. Il neo-paesaggio assorbe l’insorgenza dell’aria come una rete strappata, dove si può vedere attraverso i ristretti trafori il languido passaggio della biosfera e lo squarcio la lascia imperversare rarefatta, senza ostruzione alcuna.
Il sito terrestre appare rovesciato, avviluppato sui gineprai delle frasche appassite, decadenti. Il cielo si leviga nel riflesso delle saline macerate da fango e detriti. Percorsi ininterrotti e piccoli crateri pigiano i calcizzati sentieri. Dall’infimità della terra vi è la proiezione visiva sbalzata delle irte sommità dei ghiacciai che si stagliano sopra l’orizzonte, non più aguzzi, taglienti, imponenti, sempre meno rassomiglianti a sé stessi.
Lo Stambecco gentile si destreggia tra gli artefatti della natura agreste con passo felpato, il branco di riferimento è già quivi seminato da alcuni dirupi morbidi che ha risalito con istinto famelico, a queste altitudini di solito contemperato dall’aria dolce. Il bovide scalcia all’indietro per marcare il lastrico in dissolvenza sotto i suoi zoccoli; appigliarsi alle feritoie delle rocce è impervio, non ci sono più strettoie d’appostamento per grattarsi il dorso, la vegetazione è mineralizzata e tutto sembra smottato dall’alto, come falde acquifere che abbiano subito il percorso inverso alla stagnazione. Persino la paura dei lupi montanari è affievolita. Non si scorge erba commestibile, lo sguardo radar con le curvature cornali, è un cenno di disorientamento, presagio di nuovi orizzonti, nuovi ambienti, altre praterie e imperscrutabili destini; ora bisogna adattarsi alla vita. Quella che resta, quella che verrà.