«Sara! Dove sono le cartine della Lettonia?» «Penso siano sui gradini insieme ai libri di montagna e di viaggio»
Mi avvicino così alla scala ed ai suoi scalini che fungono da scaffale – che di per sé, già evocano la fatica del salire, dello scoprire l’oltre – e fra i minuscoli volumi della “Piccola filosofia di Viaggio”, ritrovo proprio quelle mappe sgualcite, riempite di chilometri, giri di ruota ed il verde convinto delle foreste baltiche.
Dopo averle colte con gli stessi modi che si usano coi fiori, le dispongo sul pavimento di legno: immediatamente, la comune lingua della natura che accomuna i listelli d’albero del tavolato ed i rettangoli colorati di carta, si traduce in armonia.
Tocca quindi al mio sguardo lo sforzo di risintonizzarsi sulle frequenza di quelle mappe.
Bastano davvero poche occhiate per intuire, senza interferenze, il canto di una minuta voce di 1 a 100.000, ambigua come i ricordi e come i ricordi, capace solo di delineare a grandi linee, il filo del tempo, la tela dello spazio. La loro è una melodia dal timbro sorridente, lieto e grato: sentimenti nati dal riconoscere in me l’amico che le consultò con quell’attenzione che è generosità e fiducia, affinché rivelassero quella via fra tante: la nostra. Una via che non s’affidasse alle linee rosse più marcate, tristemente amanti dell’efficienza e delle traiettorie dirette, ma che osasse credere allo sterminato verde delle foreste, ricche di sentieri talmente umili da non pretendere alcun riconoscimento. Una via solo tratteggiata, da inventarsi e da far nascere unendo, come nel gioco dei puntini numerati, varie tappe sorte dal semplice desiderio di bellezza. Una via da comporre, una pedalata dopo l’altra, alla saggia velocità delle ruote, capaci di scivolare in carezze ma incapaci di lasciare tracce.
Chiederò la sciocca clemenza, di lasciarmi fra i tanti, solo i ricordi legati a quei due ingenui episodi.
Ora la musica è perfettamente chiara e davanti a me è la partitura d’un opera: questi segni topografici, note; quelle vie, pentagrammi sfilacciati… Dove noi, e solo noi, con le nostre biciclette noleggiate, eravamo gli interpreti!
Anche senza volerlo, le mie dita vengono richiamate sulla cartina a ripercorre, il percorso del nostro viaggio, durante il quale ci affidammo (vigliaccamente?), anche a quel navigatore satellitare, che pur millantando sicurezza, non riuscì mai a garantirci un incedere tranquillo.
Relativamente pochi furono i chilometri senza dubbi, dominati dalla certezza del sapere dove eravamo esattamente; numerose invece le fantasiose invenzioni che sovente ci costrinsero a ritornare, pur sempre scodinzolando, sui nostri passi. Solo due invece, le occasioni di disagio in cui un primo disperare, rivelò più tardi l’importanza dell’aver fiducia negli altri uomini e nel cielo.
Non so se un giorno passerà a visitarmi il vento che cancellerà i ricordi o se arriverà quella malattia-tempesta che annullerà la memoria, ma se così fosse, alla sua crudeltà che ruberà ogni importante dettaglio chiederò la sciocca clemenza, di lasciarmi fra i tanti, solo i ricordi legati a quei due ingenui episodi…
Il primo nel villaggio di Kudra, dove ci sorprese un temporale e dove il nostro muoverci bagnati, con umiltà e bisogno, ci spinse dapprima sotto alcuni alberi e poi a fianco di Dzintra, una signora lettone, intenta a bruciare foglie nel suo giardino. L’indifferente titubanza iniziale si trasformò in un poverissimo dialogo di parole, ma ricco di gesti e disegni. La nostra umile richiesta di un tetto per ripararci dalla pioggia e di istruzioni per ritornare al nostro alloggio, venne ripagata generosamente con una calorosa accoglienza e con la preziosa disponibilità a mostrarci di persona, con la propria auto e per una decina di chilometri, la giusta strada che mai avremmo scovato.
Nel futuro mio e di Sara, già si intravedeva quel viaggio magnifico che avrebbe vissuto nei fiori e nel profumo d’arancio.
Il secondo, visse invece in una cava poco dopo l’abitato di Vangazi, dove le nostre biciclette passarono a fianco di enormi camion, strutture arrugginite, montagne di sabbia e macchinari usati per l’estrazione di inerti, prima di ritrovarsi dinanzi ad un grosso guaio. Un ambiguo ponte costituito da un tubo ricoperto ormai da poche assi di legno, da diversi chiodi a vista e con un corrimano traballante. Un ponte che se non avessimo attraversato ci avrebbe costretto a ritornare indietro per diversi chilometri e a cercare chissà quale alternativa.
«Ale, cosa stai facendo?»
La voce di Sarà mi riportò nel presente e non fu poca la sorpresa nel ritrovarmi inginocchiato sopra quelle cartine. Mi sentivo il devoto adoratore del “Signore di ogni luogo” che con il proprio ricordare si disponeva in ripetuti grazie, il cui eco al pari di una candela, auspicava benedizione e grazia.
«Niente…»
Niente. Niente, sembrava la risposta più corretta. La più simile a quella natura che sempre si mostra generosa, pur non rivelandosi e tacendo. Niente. Eppure sapevo che su quelle cartine avrei continuato la pratica di quel ricordo-preghiera, nella felice consapevolezza che nel futuro mio e di Sara, già si intravedeva quel viaggio magnifico che avrebbe vissuto nei fiori e nel profumo d’arancio.