Non era un sentiero battuto, era solo una fuga di orme che bucherellavano la neve. A seconda delle dimensioni delle scarpe o del peso dei corpi il velo bianco aveva ceduto in smottamenti più o meno marcati. La luna della sua infanzia li illuminava, e dove l’incavo era profondo la neve perdeva compattezza e si schiariva in trasparenze azzurre.
Il nome della bambina era Nilüfer, che in persiano significa “riva dell’azzurro”, e per contiguità visiva anche loto, il fiore che cresce sul ciglio dei fiumi. Era una bimba silenziosa, Nilüfer, ogni giorno raccoglieva mucchietti di parole italiane che metteva da parte come fossero pietre preziose. Di tanto in tanto infilava la manina in tasca e prendeva la parola che le sembrava più adatta alla situazione. Una parola sola, una alla volta. E quella parola proiettava un raggio di luce sul momento presente, ma lasciava dietro di sé anche un riverbero esile, la traccia di un passato, di un sentire bambino con altre radici.
Nilüfer non aveva mai visto la neve, e neppure la montagna. Il nero denso del suo sguardo aveva rotto gli argini quando era scesa dalla macchina e lei l’aveva presa in braccio, senza parlare. L’aveva immersa nel paesaggio bianco e le aveva appoggiato la mano sulla guancia avvicinandola dolcemente a sé. Il piccolo viso si era abbandonato per un secondo al calore della pelle, poi di colpo si era raddrizzato e le lunghe ciglia nere avevano disegnato uno sguardo vigile, rapito. Lei aveva aspettato ancora, per darle tempo, e spazio.