Smise di piovere che eravamo in vista del rifugio, in un fine settimana dalle previsioni senza scampo, delle sagome strane tra la nebbia, gli sci di traverso sullo zaino; all’imbrunire l’ombrello aperto gettava sulle figure un cono d’ombra che il gestore allungò il collo fuori dalla finestra per capire bene cosa o chi arrivasse.
Poi sul tavolaccio, all’ingresso:
“Dove andate?”
“Lassù…”, “Domani…”
“Domani è brutto”
“Perché? Finora?”
Nel rifugio non c’era nessuno, il gestore era salito dal paese ad aprire a una compagnia che poi non si era vista a causa del maltempo; alla nostra vista prese una bottiglia di vino e tre bicchieri e ci raccomandò: “Non prendete mai un rifugio!”
Bevevamo in una nube di vapore quando uscì dalla cucina con una enorme padella di pasta, la poggiò nel centro della tavola, mentre noi si apparecchiava la tavola.
Mangiammo in fretta; ogni tanto rimbombava un tuono dal suono metallico e penetrante; si sentiva distintamente la pioggia battere sul tetto di lamiera e, più ovattata, sul portico di legno mentre lampi illuminavano la montagna.
Il chiarore improvviso di ogni fulmine illuminava forme di strani animali, o forse anime dannate che si aggiravano nelle notti di tempesta per poi sparire al mattino.
Il mattino dopo infatti tutto era scomparso nella nebbia che avvolgeva ogni cosa.
“Attenti!” ci gridò il gestore, memore delle ore passate a suonare la campanella del rifugio per ricondurre i dispersi vaganti sulle morene, quando non a recuperarli in parete con la brina negli occhi.
Intanto si sale, con la leggerezza di chi, in ogni momento, accampando buon senso, esperienza, vecchiaia, potrebbe girare i tacchi;
– e invece ora abbiamo gli sci sullo zaino, i ramponi ai piedi e la piccozza in mano; le gocce di condensa scivolano dal casco sul collo e si mescolano col sudore e l’andatura aumenta tanto che all’uscita da uno stretto colatoio ci ritroviamo appoggiati rantolanti sulle piccozze.