Saggio

ERADICARSI

“Me ne vado – scriveva Vitaliano Trevisan in Quindicimila passi (Einaudi, 2002) – lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale. Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse pericolose e pericolosamente malvagie”.

testo di Vittorio Giacomin

05/01/2024
6 min

Vitaliano Trevisan

Il 7 gennaio 2024 ricorre il secondo anniversario della morte di Vitaliano Trevisan: scrittore, attore, drammaturgo, regista, sceneggiatore, scomparso all’età di 61 anni a Crespadoro (VI). Uno dei più grandi narratori contemporanei e del contemporaneo.
Dove tutto ebbe inizio (in Works, Einaudi, 2022), con la sua spietata lucidità, ci offre uno strumento di analisi sul paesaggio, ci offre uno sguardo sul territorio, una critica sociale, economica, psicologica, senza veli, dove anche lui stesso non si chiama fuori.
Trevisan sceglie, perché deve parlare del suo luogo, e per farlo esiste un unico modo: lasciare il luogo per poter parlare del luogo. Solo così, senza più radici, sarà possibile rivederlo nuovamente per quello che è.
La redazione di altitudini desidera fare memoria di Vitaliano attraverso il ricordo di un compagno di strada.

Eradicarsi

“In tutti questi anni, nel corso di tutti gli spostamenti da me effettuati, da casa al tabaccaio (791p), da casa al municipio (930p) … il computo… durante il viaggio di andata poi durante il ritorno, non è mai tornato”.[1]

Camminare, camminare, camminare, per cercare, per trovare, per ritrovare.
In una iniziativa pubblica a Riccione fu chiesto a Vitaliano Trevisan: «A suo avviso, in che stato vive, oggi, la letteratura italiana? Sta bene, è in coma, risponde all’esigenza minima di testimoniare il mondo, l’uomo?». La risposta fu: «A questa domanda non so rispondere – a rigore, non mi occupo di letteratura, italiana e non».[2]

Vitaliano Trevisan non trovava interesse per domande di circostanza, era interessato al cammino, come un montanaro, era attirato da altri pensieri, e non è detto che una sua qualsiasi risposta potesse essere attinente alla domanda, non tanto perché non volesse rispondere, ma per il fatto che lui parlava scrivendo. Sulla scrittura era rigoroso, esigente, ferreo e puntuale, come sull’uso della lingua del resto, la sua vita era altro dalla letteratura, era semplicemente vita, la sua, anche se, sulla lingua, era davvero esigente.

Aveva distillato che la vera comunicazione stava nella vera scrittura e a tanto si è adoperato per una gran parte della sua vita in questa strenua ricerca. Come Trakl, al quale ogni tanto lo associo quando penso a lui, era consapevole del suo destino, e per tale ragione si sentiva sradicato dal mondo e straniero a casa sua e da questa sensazione intima inizia il suo vagabondare curioso, attento, meticoloso, mai superficiale.

«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L’origine è un vestito che uno non smette mai».[3]

Trovo in questa parola “origine” un sentimento intimo di ricerca, una traccia operativa, che Vitaliano Trevisan, in piena sintonia con Trakl, e con il suo riferimento letterario Bernhard, ha indagato.
Come pochi, o lui solo, è stato capace di ricercare ostinatamente questa origine partendo da frammenti che sono rimasti sparsi qua e là nel nostro mondo “iperculturale”, e che poi, pazientemente, ha ricomposto offrendo loro nuova vita attraverso i suoi libri.

Nato in Veneto in un’epoca che ancora consentiva di percepire la specificità di questa terra, tanto amata, il “sentimento ammirativo”, ben presto impatta sull’insorgere di un mutamento travolgente che non risparmia nulla: che spazza via ogni sentimento, che aliena l’uomo, che distrugge le radici, l’origine, che cosparge bruttezza, che non smette mai, appunto, di insinuarsi come un tarlo nella testa, di rendere opaca la memoria e lo sguardo, che chiede in ogni momento il riscatto.

La “Valletta del silenzio”, ph. Vittorio Giacomin [4]

Noi ci costringiamo a non percepire il nostro abisso.
Eppure, per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù, al nostro abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo.
_
Thomas Bernhard,
Perturbamento, Adelphi, Milano, 2002

Il luogo scompare, e con il luogo scompare anche l’umano. L’uomo resta nudo e solo.

Credo che qui, in questo travolgente mutamento, si formi l’ostinazione di Vitaliano Trevisan, sulle orme di Zanzotto, forse, ma anche di Piovene o Parise, a pensare che solo il giusto linguaggio, la lingua, può descrivere questo abisso del contemporaneo che lui prima, forse, ma meglio di altri vede. La scrittura quindi può essere salvifica, prima di tutto per sé stesso.
Ciò che prima era il luogo, il suo mondo, non lo è più, portato via inesorabilmente in molte maniere: dall’eroina che intorno alla vita di ognuno crea tanto dolore e lascia solo disperazione, dalla cancellazione del paesaggio, dalla tremenda trasformazione antropologica che negli anni ’70 del ‘900 ha travolto tutto, specialmente in Veneto.

Sono stati quelli gli anni di una agonia che non lasciava respiro, gli anni in cui vi era la consapevolezza che nessun risanamento avrebbe mai potuto esserci. Il luogo dove noi stessi percepivamo qualcosa di “veramente umano” tanto era sognante il nostro Veneto, si stava dissolvendo, per sempre, senza speranza.
Iniziavano a sparire i prati, le case, i paesaggi; a morire le persone di droga, i pesci nei fiumi per l’inquinamento, poi le persone, a morire le persone di sfruttamento, di pazzia; iniziava a morire la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra storia millenaria che sentivamo ancora parte di noi.

Tutto dentro la “betoniera” del nuovo che era già vecchio, della modernità ignorante, per fare posto a che cosa: a scatole per gli acquisti bulimici, rotatorie, strade senza alberi e siepi, vuoti urbani angoscianti nei quali lo sfruttamento delle donne diventa “amore” a pagamento.

Tutto dentro la “betoniera” del nuovo che era già vecchio, della modernità ignorante, per fare posto a che cosa: a scatole per gli acquisti bulimici, rotatorie, strade senza alberi e siepi, vuoti urbani angoscianti…

Vitaliano Trevisan prende quindi le distanze da tutto questo e inizia la sua ricerca del “vero luogo” partendo dal tentativo di ricomporre i pezzi di quella origine, prendendosi cura degli scarti, interessandosi ai brandelli di esistenza delle persone più alla deriva, il luogo non luogo desiderato dal protagonista di “Works”. Lo fa consapevole che il linguaggio può essere davvero la chiave che apre al mondo, che aiuta a guardare l’abisso, consapevole, come direbbe ancora Zanzotto, che la lingua “vive in aperto dialogo e in continuità con il passato”.

Anche lui come Bernhard parla di un mondo che ormai non c’è più, ma ancor più parla del mondo tragico che subisce. In molte cose si richiama al suo maestro, nell’intransigenza, nell’irriverenza, nel suo modo di essere libero, politicamente indifferente, chiamato alla scrittura non solo per “necessità interiore”, ma anche per vivere.
Tuttavia, la scrittura di Trevisan non è mai incomunicabile forse grazie alla presenza continua del ritmo che non ti consente di respirare, che non ti dà spazio. Del resto da bravo batterista qual era trasferisce il ritmo nella scrittura costringendoti a stare attento, a non perdere il filo, a calarti nella verità del testo, a guardare l’abisso nel quale sei e che non vuoi vedere, a partecipare al suo grido.

Trevisan non volta mai la faccia e come un reporter d’eccezione (cfr. Black Tulips) indaga, studia, si documenta, racconta e ti mostra il mondo che ti circonda riempiendolo però di senso, di un orizzonte creativo, necessario alla sopravvivenza, che rende la sua scrittura lenitiva, che aiuta a stare meglio, ad acquisire la consapevolezza del tempo. Lasciare convivere le contraddizioni era il mestiere di Trevisan perché lui detestava le ipocrisie e conosceva i limiti dell’uomo.

A due anni dalla sua scomparsa, che non ha sorpreso tutti, e che da molti era stata messa in conto come una possibilità, il vuoto che ha lasciato è grande perché molti – come me ora – ci sentiamo un po’ orfani e un po’ ciechi. Ci manca quella “seconda vista” che Trevisan ci regalava con le sue fatiche e con la sua ostinata determinazione di guardare l’abisso.
_____
1) Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi, Torino, 2002.
2) Vitaliano Trevisan, Intervista in occasione della edizione n. 54 del premio Riccione per il Teatro.
3) Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi, Torino, 2016.
4) Lo scatto mostra la Valletta del silenzio, incantevole angolo di natura e paesaggio, subito a ridosso della basilica di Monte Berico a Vicenza; può essere letto come una provocazione, del resto Vitaliano Trevisan era maestro in questo. Scrive in Works: Il Veneto rurale è per me il ricordo di un ricordo, qualcosa che è passato attraverso i miei genitori, ma che non ho mai davvero vissuto. Può esserci un fondo di verità in questo, ma questo era un tema che tornava  nelle conversazioni nonostante il suo dire: Non ho nostalgia per il passato. Se Vitaliano Trevisan parla del Veneto rurale come il ricordo di un ricordo, senza nostalgia, in lui rimane vivo il sentimento originario che rendeva mitico, sacrale, per così dire eterno, che rendeva unico questo luogo. Si tratta di quel passaggio magistrale che registra Zanzotto quando afferma che i luoghi e i paesaggi non esistono sempre, esistono quando vi è una corrente di desiderio che unifica e fa sentire l’uomo parte del luogo dove abita. Vitaliano Trevisan, ben presto vuole abbandonare questo luogo (nella accezione più ampia di contenitore politico e sociale) che non sente più suo tanto è stato svilito trasformato, ma dentro di lui rimane quella corrente di desiderio che nasce da molto lontano, dal lavoro, dalla cura, dalla ricerca di dare eternità a questo lavoro trasformato in paesaggio, come nell’esempio dello scatto, a partire Cima da Conegliano o Giorgione che per primi hanno indagato e fissato questo sentimento ammirativo”. Si può affermare, con nostalgia, nel caso di chi scrive, che Vitaliano abbia per sempre decretato la parola fine a questo sentimento con la lucidità che appartiene solo a lui, riconoscendo e mostrando questa fine.

Il cammino di Vitaliano
Nato a Sandrigo nel 1960, ha esordito nella scrittura solo a 38 anni, dopo essersi dedicato a vari lavori nella giovinezza, dal manovale al costruttore di barche a vela, dal cameriere al geometra, dal disoccupato al gelataio in Germania, dal magazziniere al portiere di notte. Lo racconta lui stesso in “Works” (2006). Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato nel 2002 “I quindicimila passi”, vincitore del Campiello Francia nel 2008, con cui ha raggiunto la notorietà. Per il Teatro ha curato l’adattamento di Giulietta di Federico Fellini, del 2004; suo anche “Il lavoro rende liberi”, messo in scena nel 2005 da Toni Servillo. Ha lavorato anche con Matteo Garrone: è stato sceneggiatore e attore in “Primo amore”. La sua ultima prova attoriale risale al 2019, quando appare ne “Il grande passo” di Antonio Padovan.

Vittorio Giacomin

Vittorio Giacomin

Scrivo, qualche volta; cammino, quando posso; immagino, sempre.


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7 commenti:

  1. Silvia Silvia ha detto:

    Un bellissimo articolo. Grazie.

    1. Vittorio Vittorio ha detto:

      Grazie Silvia,
      mi fa piacere che l’articolo abbia trovato il Suo interesse. Un cordiale saluto.
      Vittorio

  2. Luciano Luciano ha detto:

    Molto bello e interessantissimo, illuminante direi su di un importante personaggio, scrittore che conosco poco. L’articolo mi induce a colmare senza indugi questa lacuna. Grazie.

    1. Vittorio Vittorio ha detto:

      Grazie Luciano.
      Le auguro che l’approfondimento della conoscenza di questo straordinario scrittore non la faccia pentire di averlo fatto. Sono certo che sarà ripagato. Cordialmente.
      Vittorio

  3. vanna ha detto:

    Quando ho letto Works alla sua uscita l’ho ritenuto il più bel libro letto negli ultimi anni, (sono una forte lettrice); avevo già un bel ricordo dei Centomila passi, straniante racconto di una vita in bilico, e poi due incontri letterari che me lo avevano fatto conoscere dal vivo, così diretto e quasi imbarazzante nei suoi silenzi a domande a cui non rispondeva, muto.
    Un autore ritenuto scomodo, osannato postumo, grazie per questo sincero ricordo, per ricordarcelo nella sua mordace vividezza.

    1. Vittorio Vittorio ha detto:

      Buonasera Vanna e grazie per la Sua condivisione. Concordo con Lei sul fatto che Works sia un libro fondamentale del nostro tempo. Un libro completo perché troviamo molta trasversalità di pensiero e di interessi. Un libro senza filtri, un libro che porta alle estreme conseguenze, perché Vitaliano ostinatamente, sempre, voleva arrivare alle estreme conseguenze. Un libro che è come la seduta dall’analista di una società allo sbando incapace di vedere la propria crisi. Lui era così: intelligente, intransigente, imbarazzante. Era imbarazzante per noi che non avevamo la sua capacità di visione e su questo lui non ti mollava. Ci mancherà. Cordialmente.
      Vittorio

  4. Lucia ha detto:

    Un articolo che stuzzica chi non conosce questo autore e i suoi lavori ad andare a scoprirli ! Complimenti all’autore per questo davvero ben scritto articolo .

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