Siamo in tre, stretti sotto lo stropiccio del telo termico, riparati da una sporgenza rocciosa che emerge da un pendio fitto di mughi, i piedi ben piantati a terra per sostenerci sulla ripidità del versante.
E’ ormai buio da un pezzo. Ma come è potuto succedere? Come abbiamo fatto a cadere in questa trappola?
Questa mattina eravamo partiti alle prime luci per salire su questa montagna, il Monte Frugna, nelle Dolomiti Friulane, in una bella giornata tardo autunnale, inizialmente fredda, ma poi riscaldata dal sole che ci ha raggiunto dalla forcella in su. C’erano nubi basse nelle vallate, di quelle bianche, traslucide, che ti fanno sembrar d’essere su uno scoglio in mezzo al mare. E noi, di gran lena, dopo un primo tratto facile di sentiero, quello segnato in rosso sulla cartina Tabacco, che porta a forcella Frugna, via a ficcarci su per una traccia poco marcata che sale un ripido pendio coperto di mughi: sulla mappa un sentiero nero.
All’inizio si riconoscevano i tagli di rami che aprivano un varco per il passaggio, poi più nulla, non più tracce sul terreno, non più segni di passaggio. Anche sulla mappa il sentiero nero non era più segnato. Ma noi, convinti, abbiamo insistito nella direzione, apparendoci chiaro il percorso da seguire: traversare completamente il pendio di mughi, salire in cresta, scavalcare una o due quote intermedie fino ai 1837 metri della nostra cima. E così ci siamo ritrovati in un corpo a corpo coi mughi, facendoci largo con le braccia tra i rami alti che ci avvinghiavano e, nel contempo, scavalcando quelli più bassi, cercando un appoggio stabile per i piedi. La fatica, poco a poco, si impadroniva del corpo, ma bastava alzare un attimo lo sguardo verso la cima e, vedendola così vicina, trovavamo subito nuovo vigore.
Non riuscivo più a proseguire in quel dispendioso procedere tra i mughi, e poi, ormai, era quasi buio.
Il tempo passava veloce, mentre noi nuotavamo tra quei mughi, talmente presi nello sforzo di quell’esercizio di galleggiamento, che il raziocinio era praticamente annullato, c’era solo il nostro corpo a contatto con quella natura vera che ormai quasi solo gli animali sperimentano. Non un momento in cui avessimo pensato di tornare indietro, non un momento in cui ci fossimo resi conto che era tardi, e, alzando gli occhi, avessimo visto le nubi salire inesorabilmente verso le cime. Così, felici, ci siamo trovati attorno all’ometto di vetta a stringerci la mano e, solo allora, a realizzare quanto difficile sarebbe stato scendere. Le nuvole avevano avvolto tutto, più nessun punto di riferimento, solo la pendenza del terreno a guidare i nostri passi. E, naturalmente, abbiamo perso l’orientamento, siamo scesi per un altro versante, incontrando queste rocce, dove ora ci ripariamo. Per giunta, nel tentativo di riportarci sulla retta via, divincolandoci con il corpo, con le mani tutte appiccicose di resina e facendo l’altalena coi piedi sui tronchi più grossi, sono pure caduta all’indietro, rotolando due o tre volte e fermandomi piantata nei mughi. Per fortuna, mi pare di non aver niente di rotto, mi fa solo male all’anca ogni volta che provo ad alzare la gamba per superare un ostacolo. E’ anche per questo che abbiamo dovuto fermarci, non riuscivo più a proseguire in quel dispendioso procedere tra i mughi, e poi, ormai, era quasi buio.
Abbiamo sopravvalutato le nostre forze, più ci immergevamo nel selvaggio della natura, più da essa ci stavamo distaccando.
In queste ore di bivacco imprevisto abbiamo tempo per pensare, per interrogarci sugli errori, sui perché. Scambiamo poche parole, anche questa volta non sono necessarie, ci siamo sempre capiti noi tre. Animati dalla stessa voglia di andare in montagna “non firmati”, in posti “non da copertina”, nello stesso modo un po’ selvaggio e senza troppa tecnologia. Però questa volta abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati sopraffare, forse, dall’ambizione della meta. Ma che ambizione sarà mai questa di salire una cima pressoché sconosciuta e ancor più ricoperta da mughi? Abbiamo sopravvalutato le nostre forze, più ci immergevamo nel selvaggio della natura, più da essa ci stavamo distaccando, perdendo la percezione delle nuvole che stavano salendo.
Quando la mattina i tecnici del soccorso alpino ci caricano sull’elicottero, grosse lacrime mi scendono guardando la cima del Frugna che si allontana, coperta da una grossa brinata. E’ il modo peggiore di lasciare una montagna, artificiale, quello che non avrei mai voluto provare. Già normalmente, quando una gita finisce e si torna a valle, c’è un po’ di tristezza, questa volta provo quasi un dolore: vorrei esser ancora là, a scendere con le mie gambe tra i mughi, vorrei esser là a sentire i rumori del bosco piuttosto che questo urlo del motore.
Sui sentieri neri sono tornata ancora, con molte più attenzioni di prima, con più preparazione, con più umiltà, con più consapevolezza delle mie forze e delle forze della natura. Però anche con la stessa voglia di scoperta, sfida del mettersi in gioco, piacere di sperimentare la fatica del corpo e il senso di libertà che i sentieri neri sanno regalare.
Da vecchio campagnolo cresciuto 3 mesi all’anno in montagna, ho letto con commozione il racconto della Dssa Fabiana. Capisco quanto male ci si possa stare quando non riesci a ritornare con i tuoi mezzi ma è l’esperienza della vita di chi ama il busco, raggiungere la vetta e ridiscendere per raccontare. Complimenti