Racconto

I COLORI DELL’AUTUNNO,
I SUONI DELLA VITA

Il colore è un linguaggio universale, simbolico, appunto, che il colore deve essere guardato con gli occhi dello spirito, ascoltato quindi, come la musica, fatto vibrare.

testo di Vittorio Giacomin

ph. Annie Spratt by unsplash
10/10/2020
4 min
Se penso a quando ero bambino, una delle immagini che ricordo è quella della commemorazione del IV novembre.

Si iniziava la scuola il primo ottobre, ed ecco, da subito, un susseguirsi di prove per i canti da esibire alla commemorazione per la vittoria sugli austroungarici, alla presenza delle autorità, di fronte alle lapidi con i nomi dei caduti per la patria; non erano ancora passati cinquant’anni da quella data che segnò la fine dell’“inutile strage”, e non c’era giorno che si saltassero le prove perché quel giorno bisognava cantare bene.
Gli aspetti che più ricordo di quella commemorazione, mai per me bella, sono: il freddo, il grigio della nebbia, l’euforia degli adulti nell’attesa di avventarsi sui panini a fine evento, la retorica dei discorsi ufficiali.
C’era qualcosa d’altro, però, che ci accompagnava in quel momento di vita sociale particolarmente sentito, che ci faceva percepire che stavamo vivendo un momento speciale dell’anno.

Il nostro piccolo paese di circa mille abitanti era a quel tempo un giardino, avevamo vicino alla scuola due bellissimi parchi privati con alberi secolari e ancora non erano intervenuti gli sventramenti del contesto urbano che di lì a poco avrebbero cambiato per sempre il volto del paese, e della nostra storia. E che cos’è un giardino, se non “una forma inafferrabile, un’architettura immateriale dell’anima, un luogo dove perdersi, un posto dello spirito fatto di forme mutevoli che si perdono in un tripudio di colore”¹.
Il mio andare a scuola a piedi era accompagnato dall’osservazione di questo luogo della memoria, costituito principalmente da alberi, prati e acqua, che mutava nei giorni e che mi accompagnava alla nebbia e al freddo, immancabili, nel giorno della commemorazione.
Ricordo in particolare un platano e un tiglio meravigliosi, imponenti – abbattuti poi con ferocia da uomini senza scrupoli, con l’aggravante di futili motivi – i quali, nella stagione chiamata autunno, diventavano i protagonisti del paese insieme agli ippocastani e a molti altri alberi che circondavano le nostre modeste case.
Io non ero che un bambino curioso e non capivo l’origine di quella mia emozione che mi portava a scuola. Mi lasciavo però trasportare pregustando il pomeriggio libero e spensierato che mi avrebbe fatto immergere in quella bellezza.

Il clima tradizional-culturale di quel mese, che a partire dall’inizio della scuola, arrivava alla domenica del ringraziamento, dove i contadini portavano alla Messa grande i loro frutti, aveva un sapore diverso dal resto dell’anno. E’ vero, sarebbe arrivata la Befana, babbo natale era cosa da ricchi, e prima ancora Santa Lucia, il carnevale con i suoi dolci ghiotti, la Pasqua con il profumo delle viole e delle primule, maggio dedicato alla Madonna con il profumo delle rose, l’estate con il giallo dorato dei campi e il profumo intenso del fieno, ma quel mese fatto di odore del mosto che ribolle, patata americana lessata, castagne, l’arancio delle pannocchie, l’ocra delle stoppie e dei covoni, e i colori degli alberi che si preparavano alla nuova primavera e all’azzurro dell’estate era davvero speciale.
Era un momento di pura bellezza che sgorgava copiosa nella nostra semplice e modesta quotidianità. Se, come dice Platone, l’idea di bellezza nasce nell’anima durante i misteri eleusini, ebbene quella parte dell’anno diventava il tempo della bellezza che appariva nella mia mente di bambino all’improvviso come una sorta di ispirazione.
Più tardi imparai come queste feste rituali, unissero il costume popolare con la religione. Del resto l’avvento del cristianesimo trasformò molte feste pagane in feste religiose, ma la sostanza del messaggio rimase la stessa.

In quel mese i “simboli” si moltiplicavano e ci parlavano del mistero della fertilità, della vita, della morte, della speranza di una vita migliore. Vivevamo in quei giorni, per me inconsciamente, un sincretismo che ci insegnava a vivere, che alimentava la speranza, che tracciava un percorso. Quei colori così potenti, insieme agli odori e ai riti, valevano più delle parole, alimentavano l’affetto per la vita.
L’elemento che maggiormente mi attraeva di questa congerie di emozioni era il colore. Il colore degli alberi che in quel mese ruggente diventava bellezza assoluta, che ispirava devozione e pieno allineamento con il mistero della natura, manifestazione dell’invisibile.
Le foglie mutavano aspetto prima di cadere a terra, le guardavo ogni giorno, con attenzione e questo mutamento accompagnava il mio animo.
Mutamento per Aristotele significa il passaggio da un contrario ad un altro, tra l’essere e il non essere, tra la vita e la morte e, come ci insegna la psicologia, ciò che contiene gli opposti è il simbolo. Nel mio caso quel simbolo è stato il colore delle foglie degli alberi nello spazio del mio paese, nello spazio della mia intimità di bambino.

Osservavo quei colori mutare e osservavo quegli alberi solenni e imponenti come ebbe a dire Rilke: “Questi alberi sono magnifici, ma ancora più magnifico è lo spazio tra loro, sublime e patetico, come se al loro crescere aumentasse anch’esso”.
Nella mia immaginazione di bambino tutto veniva amplificato, come nella poesia “Lo spazio richiama l’azione, e, prima dell’azione, l’immaginazione lavora. Essa falcia e ara”.²
Per me fu così, l’immaginazione provocata dall’autunno alle porte, dal verde che vira verso il giallo rendendo instabili le nostre emozioni, dal rosso e dal giallo che si spengono senza diventare ostili ed esasperati, dai caldi toni del marrone, mi accompagnò all’adolescenza e alla vita adulta e l’attrazione fatale per quei colori che si stagliavano spesso su un fondale di grigio, che permetteva al mio spirito di nascondersi, come nella nebbia, dava forma al mio spazio di intimità e allo spazio che mi circondava trasformandolo in uno spazio di poesia che ben presto venne spazzato via.
E’ innegabile che l’autunno con i suoi colori risvegli gli archetipi sopiti dentro la nostra intimità e tenda a recuperare ricordi di momenti di bellezza.
Esperienze ripetute per generazioni diventano, come direbbe Jung, i simboli di favole e leggende che il colore di quei giorni speciali risveglia, scuotendo insieme i sentimenti che spesso accomunano noi umani in questo tempo dell’anno, quali la malinconia o la caducità, ma anche la gioia, il piacere, il calore, il silenzio, il significato di uno sguardo.
In questa complementarietà di opposti il nostro essere grati alla vita, o tristi e melanconici, viene ospitato e preparato a nuova vita, alla primavera che verrà con il suo verde, colore della mediazione e della completezza.

Avevo venticinque anni e mi capitò di leggere un libro che ancora mi accompagna: “Contemplazione nel colore” del principe Trubeckoj. E’ un testo che mi svelò un mondo che il mio essere bambino sentiva come la musica, ma che non era in grado di decifrare. Questo librò mi insegnò che con il colore è possibile distinguere i due piani dell’esistenza: “quello terreno e quello ultraterreno”.
Che il colore è un linguaggio universale, simbolico, appunto, che il colore deve essere guardato con gli occhi dello spirito, ascoltato quindi, come la musica, fatto vibrare, che la potenza simbolica del colore porta alla bellezza, che nelle parole di Dostoevskij, salverà il mondo. Salvare il mondo, significa avere fiducia nel mondo, nella rigenerazione, nella vita che tornerà a rifluire.
I colori dell’autunno, colori della terra, questo ci dicono, ci aiutano a prepararci al futuro, ci danno riparo, appartenenza, riposo, amplificano, come scrisse Kandinsky, il suono interiore che spesso non ascoltiamo.
_____
1) Lionello Puppi, Esiste-insomma-il giardino? Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso, febbraio 2019
2) Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 1975

Oulanka National Park, Kuusamo, Finland


Nebbie, salite! Ceneri e monotoni veli
Versate, ad annegare questi autunni fangosi,
Lunghi cenci di bruma per i lividi cieli
Ed alzate soffitti immensi e silenziosi!

(L’azzurro di Stéphane Mallarmé)

Vittorio Giacomin

Vittorio Giacomin

Scrivo, qualche volta; cammino, quando posso; immagino, sempre.


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