Racconto

AUCUPIO, VINO E VISIONI

Quando la notte grondante rugiada incombeva e i profili dei monti si perdevano nel buio, si accendevano fuochi di larice o di faggio e i canti e l’ebbrezza riempivano quelle solitudini.

testo di Marco Macconi

28/02/2021
3,5 min

I. Ai vecchi roccoli

Il piacere sottile del viaggio è soprattutto mentale.
Il crinale del monte sprofondava in sogni di bruma, rosa o dorata, nella luce liquida del sole, in un respiro umido e fresco che rapido svaniva lungo i versanti, nello scurirsi crescente dei boschi.
Esiliatomi da un mondo che non avevo mai riconosciuto, menavo la vita selvatica di un lungo sonno di soli ricordi e immaginazioni – abbaglianti singolarità, non sempre familiari, spesso del tutto estranee, di vite e viaggi vissuti non so quando e dove.
Fosca stagione, ottobre maturo, le tue prime piogge mi svegliarono all’ombra di un faggio – candelabro, e incalzato dai tuoni, di corsa mi rifugiai all’interno di un roccolo abbandonato da chissà quanti decenni. Ritto e vetusto, di sasso intonacato, si innalzava ancora come una torre sul crinale del monte.

Anni come secoli prima, nei pressi di un altro roccolo simile, ma vicino alla città dalla quale ero sfuggito, e per questo divenuto nella mia giovane immaginazione una sorta di eremo nascosto, le contorsioni tentacolari di alberi che poi scoprii essere potati appositamente in tal modo dagli stessi cacciatori mi lasciarono in uno stato di inquietudine che durò per molto tempo. In quel luogo immaginai di vivere solitario, facendo un orto di collina, o di nutrirmi tuttalpiù, come un animale, dei frutti infanti della primavera, fragole di bosco e ciliege, mentre il sole contava i suoi giorni lentamente nel delirio della sua luce, nel gioco palpabile delle sue ombre. Poi arrivò ottobre: nascosto sopra quel mondo perso nell’autismo feroce dei suoi ultimi istanti, calmo e attento nella giovane boscaglia del colle, osservavo un tramonto fatiscente e spaventoso, di un viola tagliente sopra le brume marce della città (essa era la mia condanna al fondo delle mie fantasie) -mentre lontani, all’orizzonte, i profili più scuri delle montagne, del mio futuro, ombreggiavano all’occaso come strani presagi. La via dei monti divenne allora un bisogno e un’occasione.

Ed ora lì, nei pressi dell’antico passo del Pertüs, dorso dolomitico che giunge al monte Serrada, al confine tra l’alto colle e l’alpe dove solo qualche solitario si spinge, l’aria si era fatta pungente per via della pioggia, e una piccola stufa sgangherata mi venne in soccorso. Caricata di legna di faggio, il suo calore secco rischiarò il ristretto interno del roccolo. In quel raccoglimento, la memoria di un vecchio sogno si fece strada nella penombra: un giovane, sorpreso da un temporale sulle colline, d’estate, trova riparo ai piedi di una quercia, in una nicchia scavata tra le rocce e la terra, un antro nascosto abitato un tempo da qualcuno. Un incantesimo grava come il temporale sul bosco circostante, la sua voce è quella del ruscello che striscia tra i noccioli, il lento ammutolirsi dell’estate in un sonno d’afa e di canti lontani d’uccelli. Nella nicchia sotterranea l’umidità è fresca e terrosa; la luce pomeridiana filtra debolmente da alcune piccole aperture, di certo artificiali, scavate nella roccia marnosa della parete. Il giovane, abituati gli occhi alla semi-oscurità, nota anche quello che parrebbe una sorta di piccolo focolare posto sul fondo della stanza. La canna fumaria, un buco nero nella terra soprastante, finisce chissà dove, ma egli decide di tentarne comunque l’utilizzo; accende un fuocherello di foglia e radici.

L’incerto baluginare della debole fiamma rivela un’apertura nascosta nei pressi del focolare; una figuretta la abita e il giovane stupito scopre trattarsi di una strana statua di pietra nerastra, raffigurante una qualche pingue dea della fertilità dimenticata…
Quella fantasticheria svanì improvvisa quando mi accorsi che stavo fissando un oggetto posto su una mensola nel locale decadente del roccolo. Pareva a prima vista una piccola urna di vetro scurito, ma afferrandola mi accorsi che si trattava di una bottiglia impolverata, apparentemente piena; era inoltre tappata in ceralacca. Era stata forse la vitrea, unica compagna del vecchio cacciatore attardatosi lì chissà quanti decenni prima, serbata forse per brindare al travolgente favonio d’autunno, vento che sfibra col suo soffio esasperato, odoroso di neve, le ultime foglie dei faggi, ormai rinsecchite e color del vino.

II. Vino

Si partiva, allora, la mattina, dopo il vino; la fame rabbiosa del mezzodì era messa a macerare nel vino; il vino accoglieva nel suo tepore narcotico le membra stanche nella sera. Il sangue del giudeo, nel segno del quale si scongiuravano gli spettri e tutte le strane apparizioni notturne di quei tempi remoti, era sostanza del vino. Viandanti ubriachi vagavano sonnolenti, dopo l’osteria, sulle vecchie mulattiere di sasso che si arrampicavano faticosamente lungo gli erti versanti dei monti. La cupa notte del bosco, dove il tasso gemeva dalle sue tane nascoste, era intervallata dal respiro più ampio dei vasti pascoli nei pressi delle cascine, perlacei nel chiarore lunare. Era allora che nell’animo muto del viandante iniziava a farsi strada la visione.

Stappai in qualche modo la bottiglia e, mentre fuori il temporale scemava nel tramonto, brindai solo alle vecchie storie dei monti. Era un vino bianco e asprigno, che già conoscevo, nettare autunnale dei primi colli sovrastanti la pianura. Nella stufa ardevano le ultime braci mentre calava il buio. In quel luogo decisi di passare la notte, per poi proseguire il cammino il mattino successivo. Rinfrescava ma non avevo più legna; sapendo della presenza di altri ruderi di roccoli e capanni di caccia lungo il crinale, uscii dal mio piccolo rifugio, rincuorato della bevuta , per andare a vedere se ve ne fosse conservata dell’altra nelle vicinanze, e nel caso rubarla. L’aria frizzante mi percosse come una frusta in un modo tale che mi fece ridere.

Ubriachezza solitaria della notte alpina! Quanti, prima di me, incerti nel buio umido di quelle dorsali, o in pascoli sperduti ai piedi delle più alte montagne, si erano preparati a passare le ore del sonno accarezzati violentemente dalle passioni del vino? Guardai innanzi a me: poco lontano a settentrione giganteggiava la piramide ripida e boscosa del monte Ocone, preludio ai labirinti dolomitici del Serrada, re della vallata che dominava più oltre. Con la tenebra imminente, non mi sarei di certo spinto fin lì, ma l’esplorazione dei vecchi roccoli richiedeva di giungere fino all’antica strettoia rocciosa del Pertüs, per fermarmi ai piedi della mole dell’Ocone.

III. Apparizione

L’oscurità autunnale giganteggiava sempre più ogni istante, e il mio passo era incerto sotto la sferza del vino. Nella boscaglia circostante, la vita selvatica sorgeva lanciando i suoi richiami crepuscolari. I rami degli enormi faggi e la roccia affiorante della passata parevano sciogliersi nell’ombra soffusa che mi avvolgeva. Perlustrai due roccoli senza successo: erano ormai ridotti a scheletri di rocce squadrate, privi anche del tetto. L’ubriachezza e il buio non mi aiutavano affatto. Improvvisamente la sagoma verticale e nera del monte Ocone mi si parò davanti in quella notte montana fattasi ormai limpida dopo il temporale. Una corrente d’aria oscura e fredda, carica d’umidità, mi diede dei brividi provenendo dal versante che precipitando tra il bosco e le rocce scendeva alla mia destra, quando mi accorsi di essere giunto alla gola di roccia dell’antico Pertüs, secolare valico divisorio tra due vallate, ora dimenticato. Solo un’incisione datata raffigurante una croce stava alla base di una delle due pareti della strettoia, a testimoniare la sua antica frequentazione umana.

Qualcosa nell’aria mi fece prima rallentare il passo, e poi fermare nel silenzio della sera: ero ormai in prossimità del valico, ma un’ombra più buia delle altre che andavano crescendo intorno a me, innaturalmente densa e oscura, a tratti liquida, bloccava il passaggio con la sua forma quasi umana, ma troppo grande per esserlo veramente. A quel punto sapevo che lei mi stava osservando – nella mia mente ubriaca, l’ombra era un’entità femminile, e volando su venti notturni cavalcava i valichi posti sui confini remoti delle vallate da tempi immemori. E mi chiedevo quanti poi l’avevano intravista, nelle notti perdute delle montagne, lungo le vie ghiacciate dei paesi alpestri, nel gelo muto dell’inverno rotto solo dallo scrosciare del torrente ai piedi del ponte da attraversare per tornare al tepore delle case.

Il confine è infatti il labile dominio di questa lamia tenebrosa. La tenebra nereggiava davanti a me come una porta assai robusta da scardinare, o da socchiudere lentamente, ed essa non avrebbe questa volta parlato chiedendomi chi fossi o a chi appartenesse la notte, se prima non le avessi rivolto io la parola. Freddo il vento d’ottobre spirava tra le alte fronde dei faggi; mi impadronii del suo spirito incostante e scesi lievemente, come un fine lenzuolo intessuto nel buio, sopra il valico, sopra la di lei immensa sagoma, confusa con la volta celeste. Sgusciai al di là dei sogni ubriachi, delle millenarie paure dei valligiani, della sostanza incorporea della Donna del Gioco. Mi portai nell’essere stesso della sua leggenda, e lì trovai, sotto gli strati profondi della memoria, la sperduta notte del passo montano, il ponte che sorge sul divenire, il tepore umido e buio dell’oscura cavità liminale dal quale sgorgavano senza sosta altre forme e ricordi.

Mi soffermai su un’immagine, senza perdermi in essa: abeti stormivano là dove i gelidi venti dell’alpe, mugghiando giù dai versanti, spazzavano selle e creste mai percorse ancora dall’Uomo; milioni di primavere più tardi, sporadici pastori si spingevano fin là in cerca della fienagione per le loro bestie, dormendo in ripari di roccia, bevendo alla fonte nascosta. Quando la notte grondante rugiada incombeva e i profili dei monti si perdevano nel buio, si accendevano fuochi di larice o di faggio e i canti e l’ebbrezza riempivano quelle solitudini. Allora la donna del gioco, dalla veste nera intessuta di stelle, fuggevole allo sguardo, dimorava sugli scheletrici alberi nei pressi del campo, prima di lanciarsi nelle sue scorribande.
Non ne ebbi paura – la avvicinai senza remore offrendole del vino, amico del viandante solitario – ed ella si disfece, sfilacciandosi nella volta celeste, dopo avermi rivelato il suo nome.
Attesi ancora qualche tempo, poi feci ritorno al roccolo, carico di legna secca per la stufa. Nell’incerto tepore di inizio autunno passai la notte lì, in attesa di proseguire il cammino, l’indomani.

Marco Macconi

Marco Macconi

Marco Macconi, dottore in lettere moderne, è sfuggito dalla vita di città per trovare la sua strada in un vecchio borgo di montagna. Profondo appassionato delle Alpi Orobie, è partito dall’intensa frequentazione di queste per studiare i più diversi aspetti della cultura alpina con particolare attenzione al suo immaginario e alla sua componente spirituale, antica e moderna. Si dedica inoltre alla poesia e alla fotografia.


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