I. Ai vecchi roccoli
Il piacere sottile del viaggio è soprattutto mentale.
Il crinale del monte sprofondava in sogni di bruma, rosa o dorata, nella luce liquida del sole, in un respiro umido e fresco che rapido svaniva lungo i versanti, nello scurirsi crescente dei boschi.
Esiliatomi da un mondo che non avevo mai riconosciuto, menavo la vita selvatica di un lungo sonno di soli ricordi e immaginazioni – abbaglianti singolarità, non sempre familiari, spesso del tutto estranee, di vite e viaggi vissuti non so quando e dove.
Fosca stagione, ottobre maturo, le tue prime piogge mi svegliarono all’ombra di un faggio – candelabro, e incalzato dai tuoni, di corsa mi rifugiai all’interno di un roccolo abbandonato da chissà quanti decenni. Ritto e vetusto, di sasso intonacato, si innalzava ancora come una torre sul crinale del monte.
Anni come secoli prima, nei pressi di un altro roccolo simile, ma vicino alla città dalla quale ero sfuggito, e per questo divenuto nella mia giovane immaginazione una sorta di eremo nascosto, le contorsioni tentacolari di alberi che poi scoprii essere potati appositamente in tal modo dagli stessi cacciatori mi lasciarono in uno stato di inquietudine che durò per molto tempo. In quel luogo immaginai di vivere solitario, facendo un orto di collina, o di nutrirmi tuttalpiù, come un animale, dei frutti infanti della primavera, fragole di bosco e ciliege, mentre il sole contava i suoi giorni lentamente nel delirio della sua luce, nel gioco palpabile delle sue ombre. Poi arrivò ottobre: nascosto sopra quel mondo perso nell’autismo feroce dei suoi ultimi istanti, calmo e attento nella giovane boscaglia del colle, osservavo un tramonto fatiscente e spaventoso, di un viola tagliente sopra le brume marce della città (essa era la mia condanna al fondo delle mie fantasie) -mentre lontani, all’orizzonte, i profili più scuri delle montagne, del mio futuro, ombreggiavano all’occaso come strani presagi. La via dei monti divenne allora un bisogno e un’occasione.
Ed ora lì, nei pressi dell’antico passo del Pertüs, dorso dolomitico che giunge al monte Serrada, al confine tra l’alto colle e l’alpe dove solo qualche solitario si spinge, l’aria si era fatta pungente per via della pioggia, e una piccola stufa sgangherata mi venne in soccorso. Caricata di legna di faggio, il suo calore secco rischiarò il ristretto interno del roccolo. In quel raccoglimento, la memoria di un vecchio sogno si fece strada nella penombra: un giovane, sorpreso da un temporale sulle colline, d’estate, trova riparo ai piedi di una quercia, in una nicchia scavata tra le rocce e la terra, un antro nascosto abitato un tempo da qualcuno. Un incantesimo grava come il temporale sul bosco circostante, la sua voce è quella del ruscello che striscia tra i noccioli, il lento ammutolirsi dell’estate in un sonno d’afa e di canti lontani d’uccelli. Nella nicchia sotterranea l’umidità è fresca e terrosa; la luce pomeridiana filtra debolmente da alcune piccole aperture, di certo artificiali, scavate nella roccia marnosa della parete. Il giovane, abituati gli occhi alla semi-oscurità, nota anche quello che parrebbe una sorta di piccolo focolare posto sul fondo della stanza. La canna fumaria, un buco nero nella terra soprastante, finisce chissà dove, ma egli decide di tentarne comunque l’utilizzo; accende un fuocherello di foglia e radici.
L’incerto baluginare della debole fiamma rivela un’apertura nascosta nei pressi del focolare; una figuretta la abita e il giovane stupito scopre trattarsi di una strana statua di pietra nerastra, raffigurante una qualche pingue dea della fertilità dimenticata…
Quella fantasticheria svanì improvvisa quando mi accorsi che stavo fissando un oggetto posto su una mensola nel locale decadente del roccolo. Pareva a prima vista una piccola urna di vetro scurito, ma afferrandola mi accorsi che si trattava di una bottiglia impolverata, apparentemente piena; era inoltre tappata in ceralacca. Era stata forse la vitrea, unica compagna del vecchio cacciatore attardatosi lì chissà quanti decenni prima, serbata forse per brindare al travolgente favonio d’autunno, vento che sfibra col suo soffio esasperato, odoroso di neve, le ultime foglie dei faggi, ormai rinsecchite e color del vino.