Ma l’attesa non dura molto. Il nostro orso è goloso e non ci delude: lo vediamo uscire dal limitare della foresta, il pelo lucido e scuro, e dirigersi con passo sicuro e ondeggiante verso la parte più alta del pendio, dove solo gli amati ramni riescono a mettere radici. Lo vediamo agitare una pianta e banchettare, poi alzarsi e cercare un nuovo arbusto da ripulire. A qualche decina di metri di distanza alcuni cervi brucano quietamente: quando si accorgono della presenza del plantigrado corrono oltre un ghiaione, a distanza di sicurezza. L’orso non sembra nemmeno accorgersene. Ogni volta che appoggio gli occhi sugli oculari del binocolo trattengo il fiato per l’emozione, come se non volessi disturbarlo, farlo scappare. In realtà siamo così distanti che non può nemmeno sospettare la nostra presenza. Lo immagino vagare nel suo regno affidandosi al naso acutissimo più che alla vista, che non è molto sviluppata, del tutto ignaro di essere spiato nella sua quotidianità più banale e straordinaria. Questo è l’orso, penso. Di più: questo è l’orso quando l’uomo non esiste.
Quando la luna si alza sopra la montagna, raccogliamo l’attrezzatura e torniamo sui nostri passi. Abbiamo osservato il nostro orso finché è stato possibile, fino a quando non è diventato una macchia impercettibilmente più scura su una vasta distesa nera. Per il ritorno siamo muniti di torce frontali, ma decidiamo di non accenderle. Solo Giovanni, in testa al gruppo, ha una piccola lampada puntata a terra. «Meglio limitare le luci», spiega. Che vuol dire: meglio evitare di disturbare la vita notturna di queste montagne. Una volta che l’occhio si abitua, basta la luna a illuminare fiocamente la strada. Procediamo senza fretta. Il percorso è lo stesso che abbiamo fatto poche ore fa, ma adesso sembra di essere in un mondo diverso, oscuro, misterioso. Brulicante di vita invisibile.
Facciamo una sosta nel cuore del bosco, allontanandoci leggermente dal sentiero. Ci sediamo per terra in mezzo agli alberi, in silenzio. I sensi si acuiscono. Appoggio le mani sul tappeto di foglie sotto di me: sono incredibilmente calde. Conservano il calore della terra, forse di qualche raggio di sole della giornata. Chiudo gli occhi. Inspiro. Quanti odori nuovi, diversi. Non li avevo avvertiti prima, impegnata a non inciampare in una buca o in un sasso. Scopro che il bosco di notte non è affatto silenzioso e, una volta che ci si ambienta, non ha niente a che vedere con il luogo terrificante delle favole. Assomiglia a una tana, a un rifugio generoso che vigila anche su chi lo attraversa brevemente. Riconosco il bramito insistente di un cervo.
Un allocco, lontanissimo, lancia il suo inconfondibile richiamo. Intorno a me le cose si muovono impercettibilmente. Sento scricchiolii, fruscii, suoni lievi che non riesco a identificare. Immagino una volpe accovacciata vicino a un tronco a pochi metri da me o qualche arvicola che saetta fuori dalla tana. Immagino i lupi, gli altri affascinanti protagonisti degli Appennini, così schivi e timorosi dell’uomo, che si preparano alla caccia. Poco fa ero io a guardare senza essere vista. Ora la situazione è ribaltata: mi sento osservata da chi, a differenza mia, può dominare queste tenebre, può guardarci attraverso, può abitarle. È una sensazione strana, ma è una cosa che bisogna accettare se si è ospiti di un bosco, di una montagna: ecco un’altra cosa che ho imparato. Forse anche qualche orso ora sente il mio odore arrivare da lontano e assiste pigramente al mio rapido passaggio nel suo regno.
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foto:
1. I dintorni del punto di osservazione dell’orso, meta dell’escursione.
2. Il paesaggio durante l’escursione nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
3. Il monte su cui è stato avvistato l’orso, nei pressi del monte Marcolano (foto di Gabriele Calabrese).