Le cime senza nome appartenevano al gruppo del Martuljek e nomi in verità ne avevano, sebbene davvero impegnativi. Oltar, Dovški Križ, Široka Peč, Martuljeska Ponca. Poterli pronunciare già voleva dire avere una certa dimestichezza con lo sloveno. Nemmeno le patetiche traslitterazione del Ventennio erano arrivate fin là. A chiedere qua e là a certi “vecchi” o magari ai “ravanatori” qualcosa traspirava, ma sempre con aria di sospetto. Ognuno sapeva qualcosa, ma se la teneva ben stretta. Nulla rende qualcosa più affascinante della scarsità e frammentarietà di informazioni. Posti così nascondono sempre un tesoro, un segreto o una storia.
È stato così che ho coltivato il sogno del Martuljek, fantasticando su quei nomi ostici da masticare, ma pieni suggestioni: Oltar (L’Altare), Anfiteater, Tri Mačesni (I tre larici) sembravano i nomi da mappa del tesoro. La visione di quel catino sospeso sopra uno zoccolo di foreste fittissime rimandava alle atmosfere di Conan Doyle e del “mondo perduto”. Eppure, proprio il fatto di averlo tanto idealizzato mi frenava dal mettervi piede.
Finchè un giorno io e Carlo ci trovammo in maniera un po’fortuita sulla cima del Dovski Kriz. Avevamo seguito gli indizi sulla mappa: le cascate di Martuljek, l’enigmatico Bivak III, i Tre Larici e il canalone invisibile. E ricordo esattamente il momento in cui, superato uno scalino roccioso, l’aria gelida della Jugova Grapa ci soffiò in faccia, rinfrescando la fronte sudata in quella torrida mattina di giugno. Ci guardammo senza dire nulla, ma ognuno con la stessa inspiegabile euforia che correva sulla pelle. Eravamo entrati nel mondo perduto.
Essendo alle prime armi, in realtà, quella conquista ben presto si tramutò in una codarda discesa alla cieca sul versante opposto. Con i mezzi precari a disposizione reputammo più sicuro confidare in buone gambe, buona sorte e cordialità del popolo sloveno per riportarci al punto di partenza che non ridiscendere l’orrida paretina friabile e il canalone ghiacciato.
Non fummo delusi. Due ragazzi, provenienti dal Visoki Rokav ci raccattarono con grande gentilezza – come tipico da queste parti – e in cambio di un’ottima Laško ci riportarono all’auto. Forse proprio dal quella codarda fuga nacque il desiderio di scendere quel canale con gli sci. Perché è proprio quando la neve riempie i catini e i canali che precipitano sulla conca di Za Akom che l’idea di disegnarvi delle belle curve, possibilmente ampie e veloci risulta irresistibile. Canaloni invisibili, pendii immacolati e boschi fitti regalavano lo stesso sapore esotico e rivoluzionario che avevano quelle prime gite nella neonata Slovenia.
Tuttavia, un po’ come ai tempi in cui cercavo informazioni su quei monti senza nome, proporre un giro con gli sci in Martuljek procurava nei soci ora perplessità, ora ilarità. Più di frequente, devo dire, la seconda.
E chi è quell’idiota che si accolla 700 metri di bosco ripido per farsene altre 1200 in un posto di cui nulla si sa? Vallo a spiegare, di cosa si prova quando superato lo scalino del bosco si mette piede nel catino di Za Akom e si dispiega a semicerchio questa corona di montagne senza sentieri, bolli, cartelli. Del senso primigenio della montagna nuda, scortese talvolta, ma essenziale.
Fiato sprecato. Regolarmente le stagioni passavano, la perplessità restava.
Ci è voluto quindi un inverno magro per rispolverare il sogno dell’avventura in Martuljek. Quei pendii non solo richiamavano lo sci alpinista sempre curioso e disposto a rischiare. Erano diventati la terra promessa dei cercatori di neve.
Quando al mattino si caricano gli sci con gli scarponi montati sopra sullo zaino, magari partendo da un bel praticello verde rinfrescato di rugiada senza che di neve si senta nemmeno il profumo, la sensazione di far parte di una banda di disadattati è molto forte. Al tempo stesso questi preparativi hanno un sapore molto particolare. Lo zaino carico di attrezzatura diventa per un giorno la zattera con la quale affrontare un mare aperto, il kit di sopravvivenza per fuggire sull’isola deserta. Lo guardo con un sentimento di eccitazione e disagio. Bella l’idea di portarsi tutto in spalla, anche simbolicamente, anche se domani ne porterai le conseguenze. Da bambini, del resto, se ti facevi male mica andavi a dirlo in giro, se no ti sequestravano il pallone.