Reportage

Gli ultimi del Lagorai

La Translagorai in autonomia e senza lasciare traccia. E’ il messaggio di Leonardo ed Elisa che dicono che è possibile muoversi rispettando la vocazione dei luoghi e senza rincorrere miseri ritorni economici.

testo di Leonardo Panizza, foto di Elisa Bessega  / Trento

18/10/2019
13 min
Sono le otto di sera, il sole sta calando e sto infilando i piedi nei calzini bagnati prima di metterli nelle scarpe gelate.

La vecchia stufa non è riuscita ad asciugare nulla in poco più di mezz’ora. Mi guardo attorno e mi sembra di essere in un edificio abbandonato abitato da qualche senzatetto. Immondizie buttate nel cassettone della legna, qualche fornello, una branda con dei vestiti logori ammucchiati, quattro litri di grappa sullo scaffale. Com’è che sono arrivato fin qui?

Sono a malga Lagorai, punto nevralgico di un progetto di riqualificazione che interessa diverse strutture utili a chi effettua il trekking di oltre 80 chilometri che da Passo Rolle arriva fino alla Panarotta, in Trentino. È il terzo giorno che avanziamo sotto la pioggia battente e dopo 44 chilometri siamo costretti ad abbandonare. Con il frontalino ci avviamo a piedi verso Ziano, mancano 8 chilometri su strada forestale per incontrare un amico che ci porterà a casa.

Mille chilometri quadrati di boschi, pietraie e laghi
Quando Elisa mi ha scritto dicendomi di voler fare la Translagorai non pensavo che sarei arrivato a rimpiangere la mia scelta di prendere parte a questa avventura. È da diversi anni che frequento il Lagorai per arrampicare, fare escursioni estive, scialpinismo, ed ho sempre voluto fare questo trekking che percorre la catena nella sua interezza. Cinque giorni in completa solitudine nell’unica montagna che d’estate non è presa d’assalto dai turisti. Pochissimi i rifugi tra le aspre rocce di porfido, pochissimi i punti di appoggio Non ci sono gli spettacolari panorami delle Dolomiti fassane, non ci sono funivie o navette. Solo alcuni bivacchi e malghe, sparsi su più di mille chilometri quadrati di boschi, pietraie, moltissimi laghi e ovunque i segni della Grande Guerra.

La logica sembra essere sempre la stessa: sfruttare un’area naturale per addomesticarla, renderla più accessibile a tutti.

Mentre mi incammino infreddolito e fradicio sulle sponde di lago Lagorai per scendere a valle, odio il Lagorai, perché non c’è un rifugio dove potermi riscaldare, perché molte delle strutture sono così spartane da risultare inutilizzabili, perché è un luogo che ti mette alla prova in continuazione e perché con settembre sembra arrivato l’autunno. In alto abbiamo visto la prima neve della stagione e nel bivacco dedicato a Nada Teatin abbiamo deciso di abbandonare il percorso in quota perché troppo rischioso e siamo scesi a valle.

Potrebbero essere gli ultimi anni del Lagorai
Non c’è mai stata fretta di fare la Translagorai, è sempre stata lì ad attendere in silenzio, ma da un po’ di tempo si è cominciato a parlare di riqualificazione e riprogettazione dell’intera area. La discussione ha coinvolto un gran numero di addetti ai lavori e appassionati di montagna. La logica sembra essere sempre la stessa: sfruttare un’area naturale per addomesticarla, renderla più accessibile a tutti. Potrebbero essere gli ultimi anni del Lagorai così come lo conosciamo, mi sono detto, ed ho deciso di prendere parte al progetto di Elisa e partire.

Con alcune settimane di anticipo, Elisa, ha iniziato ad essiccare zuppe, cuscus e barrette energetiche per riuscire ad essere completamente indipendenti e cercare di avere meno rifiuti e peso da portare nello zaino. A fine essicazione abbiamo 1,5 kg di scorte che occupano pochissimo spazio da dividere per tre notti e quattro giorni. Sono così contento quando carico lo zaino: con tenda, sacco a pelo, materassino, pane, qualche salsiccia e un po’ di formaggio comprati a Predazzo, sono sotto i 15 kg totali.

Con l’uso dei mezzi pubblici e un fortunatissimo autostop raggiungiamo Passo Rolle, la giornata è splendida, il cielo terso tipico delle giornate settembrine ci riempie la vista. Antonio, che ci ha caricati a Predazzo è del posto, ci racconta come ha vissuto la folle notte di ottobre mentre la tempesta abbatteva gli alberi mettendo in ginocchio la valle. Salutiamo contenti del passaggio e iniziamo a camminare.

Inghiottiti da un essere vivente
Mano a mano che ci allontaniamo dalla strada provo la sensazione di essere inghiottito da un essere vivente, prima il bosco che respira, poi gli inconfondibili pietroni che rendono il Lagorai un luogo sacro, un lastricato di qualche strano templio in cui la natura regna sovrana con le proprie bellezze e difficoltà. Al rifugio Colbricon parliamo con la ragazza che ci serve il nostro ultimo caffè prima della solitudine totale, è solare, ci racconta degli incontri improbabili che si possono fare in Lagorai, persone con cinque litri di acqua sullo zaino, gente in ciabatte.

Poi ci sembra di volare, ci voltiamo spesso per vedere le Pale di San Martino, il Catinaccio, la Marmolada, il panorama è infinito, si scorgono persino due delle Tre Cime di Lavaredo in lontananza. Elisa mi chiede di fermarmi per fare delle foto, il panorama è davvero notevole. Al bivacco Aldo Moro incontriamo due ragazzi, hanno il passo strascicato di chi ha macinato molti chilometri. Ci raccontano di aver percorso la Translagorai in senso opposto al nostro, sono giunti alla fine mentre noi siamo solo all’inizio.

Proseguiamo passando accanto a Cima Cece, la più alta del gruppo e al caratteristico dente su cui corre una via d’arrampicata di stampo esplorativo molto esaltante. Dopo otto ore di cammino quasi ininterrotto ci fermiamo al bivacco Paolo e Nicola, dedicato a due ragazzi morti sulle pareti del Sella, poco più che ventenni. Il bivacco è comodissimo, ben isolato, funzionale, dotato dei giusti confort. Mentre scaldiamo un po’ d’acqua per reidratare la cena guardiamo il cielo stellato e intravediamo la Valmaggiore.

Il sogno del pastore: un piccolo e moderno caseificio
Qualche giorno prima della partenza, a malga Lagorai, abbiamo incontriamo il pastore e le sue mucche. Ci ha spiegato che sono pezzate, di quelle bianche e rosse, in grado di produrre più latte rispetto alle brune alpine che sarebbero autoctone. Da sempre ha utilizzato il locale adiacente alla malga per produrre il formaggio in quota ma per quest’anno (mentre sta per essere rimodernato grazie al progetto di riqualificazione) non può lavorare il latte e si trova costretto a portarlo a valle. Dall’anno prossimo riuscirà ad avere un piccolo caseificio moderno e rinnovato. È facile intravedere la felicità e la speranza di riuscire a sfruttarlo per molti anni a venire.

Una delle attrattive del Lagorai è la sua asprezza, la difficoltà a percorrerlo, la possibilità di vivere sensazioni che in molte montagne, come in città, non hanno più spazio.

Proprio sopra la casera verrà costruito un locale adibito a bivacco per chi attraversa la Translagorai. La ragazza che lavora all’agritur Valmaggiore ci ha spiegato pacatamente che se saranno loro a doverlo gestire sarà sicuramente una perdita. Al momento fanno solo pranzi e mettersi a cucinare cene significherebbe dover accendere il generatore anche la sera per pochissimi coperti e dover organizzare l’approvvigionamento di cibo in maniera più massiccia. Fare questa deviazione dal percorso in quota, tra il resto, fa perdere moltissimi metri di dislivello e non ha alcun senso per chi percorre la Translagorai. Gli escursionisti in questa zona possono contare su diversi punti di appoggio: malga Moregna, spartana ma funzionale, il bivacco Coldosè, nuovissimo bivacco a cinque stelle e il bivacco Paolo e Nicola, dove dormiamo beatamente fino alla sveglia.

La mattina successiva siamo in piedi alle cinque, dobbiamo sfruttare la primissima parte della giornata perché è prevista pioggia. Infatti arriviamo al bivacco Coldosè dopo alcune ore con i vestiti fradici. L’acqua aumenta e a malincuore decidiamo di fermarci per un giorno. Nella tappa successiva manca un bivacco con stufa, non sarebbe quindi possibile asciugare i vestiti.

I bivacchi gestiti non hanno a che fare con la Translagorai
I bivacchi solitamente sono luoghi di passaggio, un po’ come i rifugi anni fa che erano luoghi da cui partire per le proprie esplorazioni. Questa funzione negli anni è cambiata ed ora i rifugi sono il punto d’arrivo per la maggior parte dei frequentatori montani. Il rifugio è dunque una sorta di filtro che blocca la maggior parte delle persone a bere spritz e mangiare piatti anche di pesce, mentre per pochi rimane un punto d’appoggio utilissimo per partire alla “conquista” di nuove vette.

Lo stesso sta avvenendo per i bivacchi. In Lagorai sono sempre di più le persone che li utilizzano per passarci le giornate rendendo difficoltoso il pernottamento a chi desidera camminare per più giorni. Ricostruire malghe per farci bivacchi gestiti non ha nulla a che fare con l’attraversata del Lagorai, è forse un tentativo di far presa sull’unica attrattiva della zona per giustificare investimenti ed entrate economiche per una manciata di aziende, favorendo la proliferazione del turismo di massa, meno autonomo e attento e più alla portata di tutti.

Parliamoci chiaro, una delle attrattive del Lagorai è la sua asprezza, la difficoltà a percorrerlo, la possibilità di vivere sensazioni che in molte montagne, come in città, non hanno più spazio. La solitudine, la paura, la sensazione di limite imposto dalla natura, la necessità di scegliere, sono situazioni che è sempre più difficile provare. E mentre si è disposti a sorvolare su questa mancanza in luoghi spettacolari come le Dolomiti, non si sarebbe disposti a farlo in una catena che non presenta scorci altrettanto estetici. Il Lagorai è spietato e deserto, ma proprio in questa sua caratteristica risiede la sua attrattiva, non è una montagna che è possibile svendere o addomesticare troppo facilmente.

Nelle città nascono le soluzioni per vivere insieme
Stiamo fermi da alcune ore e le cose da fare non mancano, c’è la legna da tagliare, ordiniamo e puliamo alcune pentole e tazze, togliamo i materassi e ripuliamo i pianali di legno, riempiamo le taniche di acqua alla fonte. Il bivacco va custodito da chi lo abita anche solo per una notte, è qualcosa che vive con le persone che lo occupano. Non c’è bisogno di gestire i bivacchi, piuttosto di educare chi li utilizza.

Stare fermi, annoiarsi e prendere contatto con problemi che faticano ad emergere nella quotidianità, il Lagorai è anche questo, la possibilità di estraniarsi, di incontrare luoghi solitari e conoscersi. Il silenzio, la fatica, concetti che nel caos quotidiano sembrano allontanati attraverso continue relazioni, tecnologie che spesso distraggono, ingannano, qui trovano spazio. Il Lagorai offre poche distrazioni, può essere noioso, monotono, aspro, ma è lì per raccontarci quanto sia bello ritornare a casa, perché la città inganna e distrae ma è lì che le idee e le persone si incontrano e trovano nuove soluzioni per vivere insieme.

A fine giornata troviamo una birra in dispensa e la beviamo con immenso piacere guardando la pioggia che scende ininterrotta da ore. In cambio lasciamo delle bustine di tè e delle barrette autoprodotte ben sigillate e dormiamo asciutti e al caldo.

In cerca della libertà, come l’orso M49–Papillon
Il giorno dopo anticipiamo la sveglia, dobbiamo fare molta strada, il meteo sembra peggiorare. Partiamo alle quattro con i frontalini e scendiamo nel bosco, abbassandoci di quota ci inoltriamo nel territorio di esplorazione di M49–Papillon, l’orso che da alcuni giorni batte la zona in cerca della libertà. Le nostre strade si incrociano per caso e mi chiedo se in fondo non cerchiamo la stessa cosa.

La mattinata procede rapidamente, il bosco è freddo per la pioggia del giorno precedente, camminiamo nell’erba bagnata e quando le prime luci dell’alba ci raggiungono siamo già a buon punto. Intorno a noi grosse nubi nere turbinano e dalla valle sale la nebbia. In brevissimo tempo ci troviamo nel bel mezzo di un acquazzone, data l’assenza di tuoni e fulmini non c’è rischio, se non quello di cadere sulle pietre improvvisamente scivolosissime. Due ore sotto l’acqua e ci fermiamo al bivacco Teatin. È un ricovero naturale nella roccia, ci sono solamente delle assi di legno che chiudono l’ingresso di quella che è una grotta umida e fredda. Mi metto il ricambio e mi accoccolo nel sacco a pelo per riscaldarmi, dopo aver bevuto del brodo caldo mi addormento con il ticchettio dell’acqua nelle padelle da lavare.

Decidiamo senza nemmeno parlarci che scenderemo di quota, passare una notte in tenda in queste condizioni non è proprio possibile e proseguire in cresta è diventato pericoloso.

Dopo una mezz’ora stiamo cercando di pianificare le prossime mosse. C’è la possibilità di passare la notte lì, senza stufa, continuare in cresta con brevi passaggi attrezzati con cordino o scendere a valle. Le previsioni per il giorno successivo sono anche peggio, mettono neve in calo fino ai 2000 metri. Nonostante tutto sia contro di noi proviamo a proseguire, dopo due ore di cresta c’è la possibilità di scendere a malga Lagorai e lì siamo sicuri ci sia una stufa. Andando lentamente nel giro di quattro ore possiamo essere all’asciutto.

Camminiamo da dieci ore sotto la pioggia
Ci rimettiamo i vestiti fradici e gelati, sigilliamo bene gli zaini e ci buttiamo fuori nella pioggia. Camminiamo in silenzio, concentrati, la macchina fotografica di Elisa smette di funzionare a causa del freddo. Nei pressi di Cima Litegosa scorgiamo delle chiazze bianche, è neve. La prendo tra le mani, stiamo assistendo alla prima nevicata della stagione. Arrivati al bivio per la malga decidiamo senza nemmeno parlarci che scenderemo di quota, passare una notte in tenda in queste condizioni non è proprio possibile e proseguire in cresta è diventato pericoloso. Siamo completamente fradici e camminiamo in sentieri divenuti canali di scolo dell’acqua, la cosa peggiore è dover passare nell’erba alta che fa appiccicare i vestiti al corpo e continua ad abbassarne la temperatura. Continuiamo a scendere con un gran bisogno di arrivare in un luogo asciutto.

Sono le cinque di pomeriggio e camminiamo ormai da dieci ore sotto la pioggia. Quando vediamo il Lago Lagorai siamo scossi da un brivido: altra acqua. Per fortuna la malga è vicina e sulla porta veniamo accolti da alcune capre, degli asini e due agnellini che si sono riparati sotto la tettoia. Quando entriamo ci ritroviamo in un locale decisamente diverso rispetto al bivacco Coldosè. Sembra di stare in una casa abbandonata da tempo ma c’è una vecchia stufa. La legna è in gran parte bagnata ma riusciamo comunque ad accendere un flebile fuocherello. Elisa è bloccata dal freddo e dalla stanchezza mentre io sto cercando di mantenermi attivo per non sentire i vestiti ancora bagnati addosso. Mettiamo il ricambio asciutto e mangiamo qualcosa di caldo.

Come gocce di pioggia che finiscono in un grande lago
Poi il cellulare suona, è Giovanni un compagno di numerose imprese che, senza tante parole, si propone di venirci a prendere a Ziano di Fiemme. Da dove siamo noi dista altre tre ore più o meno. Tutto ben tracciato su larga forestale. Dopo un breve consulto decidiamo di prendere la strada in discesa e per un’ultima volta rimettiamo i vestiti bagnati addosso. È buio e continua a piovere.

Mentre scendiamo nella notte penso al dispiacere provocato dalla rinuncia. Quello che ci siamo proposti di fare non era una grande impresa, certo, ma attraversare il Lagorai senza lasciare traccia, utilizzando solo cibo essiccato in autonomia voleva essere un messaggio, una dimostrazione del fatto che è possibile muoversi rispettando la vocazione dei luoghi senza snaturarli per rincorrere miseri ritorni economici.

Nel buio del bosco parliamo ad alta voce, per evitare l’incontro con M49-Papillon. Ci interroghiamo: stiamo facendo la cosa giusta? Se ci fossero stati dei rifugi sarebbe cambiata la nostra esperienza? Saremmo stati più asciutti, questo è certo, più comodi, non avremmo avuto grossi dubbi sul percorso da intraprendere ma in fondo anche se ci avessero permesso di arrivare fino alla fine degli 87 chilometri, che cosa sarebbe cambiato? Non avremmo fatto esperienza di una montagna autentica, che richiede costante capacità di scegliere in maniera autonoma, di essere flessibili e pronti a saper rinunciare. La montagna non è qualcosa da piegare per assecondare le proprie volontà, non dev’essere solo successo. L’estremo controllo degli ambienti naturali ci dà l’impressione di essere invincibili perché riusciamo a fare esattamente ciò che avevamo progettato. Ma la rinuncia ci insegna che in fondo siamo solo gocce di pioggia che finiscono in un grande lago. Dobbiamo accettare la nostra piccolezza, la nostra fragilità con tenerezza e non per questo perdere la volontà di riprovarci. Il Lagorai ci insegna anche questo.

Luigi Faggini dopo 53 anni restituisce la tessera alla SAT
Come molti altri alpinisti trentini mi chiedo quanto sia corretto mantenere il tesseramento alla SAT quando si rende complice di questi progetti. Così come Luigi Faggiani¹, che dopo 53 anni decide di non rinnovare il tesseramento1, è meglio fare un passo indietro e se da giovane ho sempre nutrito un rispetto, quasi religioso, per queste istituzioni oggi forse è il caso di rivedere il tutto. Ci si rende conto che le proposte attente all’ambiente non sono solo polemiche o sottrazioni, ma tentativi di modernizzazione in cui si auspica un cambio di mentalità verso una visione più nordeuropea che alpina.

Ora bisogna solo avere il coraggio di stare sotto l’acquazzone, con i propri mezzi e con l’entusiasmo di un alpinismo giovane che difficilmente può essere misurato attraverso i canoni dell’alpinismo classico. Nelle Dolomiti, ad esempio, è oggi possibile praticare un’arrampicata che non danneggi la roccia e mentre molti mostri sacri dell’arrampicata si ostinano a mettere chiodi e trapanare, sempre più giovani praticano il Trad Climbing cercando di non lasciare traccia del proprio passaggio. Così anche noi abbiamo camminato rispettando quello che è uno degli ultimi luoghi autentici del Trentino.

Cosa ci ha insegnato il Lagorai
Arrivando all’auto ci rendiamo conto che Giovanni è il primo essere umano che vediamo da giorni, la montagna è fatta di vette, tempi, prestazioni, dibattiti, ma anche di amici disposti a sacrificarsi per rendere meno faticoso un fallimento e noi ci auguriamo di non essere gli ultimi a poterla vivere così.

Ancora una volta ci rendiamo conto di quanto in fondo sia aspra e cruda la vita in montagna, ma quanto ancora possa insegnare a noi, nuove generazioni, perché è nel caos cittadino che le idee si incontrano ma è nella solitudine del Lagorai che riusciamo ad afferrarle per diventarne consapevoli.
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1) Translagorai, l’addio di Faggiani, da il Dolomiti del 17.01.2019

Foto-reportage a cura di Elisa Bessega, alpinista e fotografa  www.instagram.com/umeshoku. Nella prossima puntata Elisa racconterà il dietro le quinte della Translagorai che ha percorso con Leonardo: il loro pensiero “zero waste”, come si sono organizzati per non appoggiarsi ad alcun rifugio e come si sono autoprodotti il cibo.

Leonardo Panizza

Leonardo Panizza

Sono psicologo, mi piace esplorare nuovi modi di andare in montagna cercando di non lasciare nulla del mio passaggio. Passo gran parte del mio tempo sciando e arrampicando ma sono anche un grande appassionato di trekking e di bivacchi.


Il mio blog | Non ho un vero e proprio blog ma utilizzo principalmente instagram per raccontare attraverso le immagini le mie avventure.
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