Racconto

#71
IL SOPPALCO

UNA METAFORA

testo e foto di Giacomo D'Ugo  / Roma

Composizione astratta_arch. Ilquintopezzo
28/01/2022
7 min
Marco_Rossignoli_014

Il soppalco

di Giacomo D'Ugo

Bianca e verticale, tanto verticale. La parete si estende intorno a me e si perde fin dove riesco a condurre lo sguardo. Non riesco a vedermi bene i piedi per quanto cerco di restare aderente con il corpo a quella muraglia. Dopotutto è proprio quello che cercavo, il verticale!

Quell’angolo di casa, un angolo appunto, ha un’atmosfera tutta sua. Il soffitto è più basso, di legno di rossastro e con due faretti tondi che diffondono una luce calda e decisa. Spingere la botola nascosta nel soffitto consente l’accesso ad un luogo altro rispetto a tutto il resto dell’appartamento. Accessibile solo con l’aiuto di una scala, il soppalco, non è proibito ma non propriamente un luogo per giocare. Troppo stretto per un adulto, troppo in alto per me. Magari potessi salire e scendere a piacimento, frugare lì dentro ogni volta che voglio. Posso però strisciare fino in fondo, questo è il mio biglietto d’ingresso e quindi papà mi manda lì dove lui non arriva facilmente, lì dove ci sono i sacchi a pelo della spedizione e quelle specie di grattugie di latta che si mettono sotto gli sci. C’è un odore pungente ma non sgradevole, odore di legno unito all’aroma pizzicoso dei cordoni rossi e delle fettucce di nylon arancione; sento in gola il sapore metallico delle lame delle piccozze e nella penombra indugio sulla rassicurante tiepidezza delle gomme che ne rivestono i manici. È un luogo caldo il soppalco e un po’ buio, un luogo sicuro e profumato di legno, proprio come un rifugio di montagna.

Alzo la destra e batto deciso sopra di me per cercare un buon piazzamento, ma l’attrezzo rimbalza con un’esplosione di schegge e bolle bianche. Lo ruoto e provo a pulire la superficie da quegli scomodi ascessi. Accidenti, qui sembra venire giù tutto…

«No, ecco, passami quella» mi guida la voce di papà da sotto. Riportiamo alla luce, giù sul pavimento freddo, un po’ di materiale alla rinfusa insieme ad una matassa di curiosità e pulsioni non espresse. Riconosco il valore di quegli oggetti che esercitano una misteriosa attrazione su di me. Ma ancora più ipnotici sono quei pezzi dai colori accesi e fluorescenti; le fibbie di nylon verde acqua, quel moschettone viola e verde che luccica come uno scarabeo in mezzo a tutto quell’equipaggiamento storico. Insomma, la “roba” più nuova mi tenta e mi seduce: questo è il materiale da avere! Sì, ma il materiale per fare cosa? Perché aggeggi metallici e tessuti colorati sono conservati nelle stesse scatole? Sarebbe bello anche solo poter indossare alcune di quelle meraviglie. Se solo li potessi maneggiare, allora sì che sarebbe: «Rimettiamo tutto su, servivano solo le scatole del presepe».

“Riconosco il valore di quegli oggetti che esercitano una misteriosa attrazione su di me“

Composizione astratta_arch. Ilquintopezzo

Ecco forse ora – chunk – sì entra! Quel poco che basta per trascinare i piedi un po’ più su. Grugnisco per lo sforzo. Respiro, si sale!

Sì, sarebbe un’altra cosa, perché questo sentiero ha un po’ rotto. Si cammina e basta. Fino a quando arriva da lontano qualcosa che fa vibrare l’aria, come un ultrasuono che solo io posso sentire, che ho imparato a conoscere spostando il materiale su e giù insieme al presepe. Lieve e gentile ma carico di aspettativa, di aria sottile, di carica elettrostatica. Un tintinnio metallico ritmico e irregolare oscilla d’intensità mentre si avvicina. La mente salta subito in avanti, di slancio, verso l’alto, oltre le mura del rifugio che si intravede lassù, verso il ghiacciaio e in mezzo alle nuvole ma è improvvisamente trattenuta per la coda prima persino di poter spiccare il volo: «Giacomo, fai passare Gruss gott!». Con incedere regolare ecco che gli scafi di plastica viola sfilano accanto a me malconci ma fieri, raspando la suola di gomma dura sulla terra del sentiero. Si vede che non sono fatti per questo; sono fatti per lo spazio, per le altezze siderali che cominciano dopo le mura di quel casermone di pietra, cominciano là, là dove noi ci fermeremo.

Questo attrezzo è un po’ pesante, ma volevo proprio provarlo. Certo ora che l’ho piantato con la destra, sarebbe meglio averne un altro nella sinistra. Avrei dovuto prendere uno di quelli più affilati ma sembravano così appuntiti, fragili… si sarebbero rovinati.

Ma forse è solo questione di avere pazienza, di non stare a pensarci troppo. Un giorno ho potuto finalmente mettere il casco rosso e indossare quell’imbragatura (l’imbragatura!) un po’ troppo grande; poi è arrivata la volta in cui ho fissato la piccozza allo zaino, con la punta verso il cielo e tutto il resto; qualche volta ho messo anche io gli scafi di plastica e poi i ramponi ai piedi.
Ogni pezzo viene prelevato, non senza una certa sacralità, da quella botola: «Questi c’hanno trent’anni, li ho usati in Groenlandia» dice papà fiero ogni volta. I modelli più moderni invece capita di ottenerli in prestito e possono rimanere nelle mie mani solo per poche ore. Muovo quindi i primi passi, ascolto ed eseguo le istruzioni. Solo così, grazie a quei vecchi manufatti posso gustare il vero regalo che sto ricevendo: il silenzio, il vento e gli sconfinati panorami. Ma me ne accorgerò solo dopo, troppo intento a trattenere l’euforia e la voglia di strafare. Dopotutto mi muovo seguendo una vecchia corda tirata dall’alto e vesto ancora una sicurezza che non posso chiamare mia.

Ecco, infine, posso accantonare alcuni vecchi ritrovati sostituendoli con nuova attrezzatura, con la mia attrezzatura. Alle elementari il mio primo zaino da montagna è stato addirittura protagonista di un tema, ma ancora mi fa comodo andare a frugare negli scatoloni nascosti lassù, visto che ora ci arrivo anche da solo. Appendo al nuovo imbrago lucente i vecchi ferri che rivedo nelle diapositive, quelle di “quando-a-giugno-c’era-ancora-la-neve” e mi getto a tracolla le fettucce dell’anno della mia nascita. Cimeli che quasi sicuramente non userò ma che senza i quali non mi sento ancora pronto a lasciare il parcheggio.

“E io invece sempre alla ricerca delle cose nuove, delle cose fighe“

Composizione astratta_arch. Ilquintopezzo

Quando poi appenderò alla vita guizzanti moschettoni ultraleggeri e indosserò vestiti alla moda che ho attentamente scelto ed acquistato, capirò che neanche me ne ero accorto. Gradualmente, infatti, sembra svanire la magia emanata dai tessuti sgargianti e dalle lame metalliche. Pian piano, ogni volta che faccio l’abitudine a ciascuno di quegli attrezzi, essa si dissolve un po’ di più. Ne comprendo l’utilizzo e mi esercito nell’utilizzarli al meglio, così da potermi concentrare sul vuoto sotto i piedi, sulla temperatura degli appigli tra le mani, sul suono delle punte dentro la neve. Quel dado colorato ad esempio, perfetto nelle sue geometrie lievemente irregolari, non vuole saperne di entrare: ci tiene come me alla sua finitura metallica opaca, al suo colore elegante ed allo stesso tempo epico. Ma io, scusandomi sottovoce, lo incastro, lo sbecco, lo graffio, lo deformo contro la roccia.

Sdìng! Altri proiettili bianchi schizzano per aria colpiti dalla becca del mio attrezzo. Non starò esagerando? Forse così lo rovino un po’ troppo…

È proprio così che la roba del soppalco ha acquisito il suo valore: sbeccata contro il tornello di una seggiovia, incastrata in una spaccatura a colpi di paura, levigata su chilometri di neve bagnata e poi su chilometri di neve ghiacciata, spelacchiata per tutte le volte che ha trattenuto la vita di qualcuno. E io invece sempre alla ricerca delle cose nuove, delle cose fighe.

Ricordo uno di quei moschettoni che ho usato per ritirarmi da un tiro troppo duro durante la mia seconda via in montagna: non l’ho più rivisto. Lo stesso vale per suo fratello gemello, perduto in una tormenta di neve per aiutare un’altra cordata. Quella bella fettuccia invece è rimasta intorno ad uno sperone, a guardare il tramonto sul mare. Il sacco a pelo rosso? Mi è capitato di usarlo giusto l’altro ieri. Perché in realtà la roba del soppalco non è fatta per stare nel soppalco. La posso portare con me e farne quello che voglio; mi viene affidata, a mia disposizione per dare corpo alle tue avventure. Qualcosa ho usato, qualcosa ho perduto, qualcosa ho conservato, qualcosa ho sostituito o migliorato.

Quando oggi ritorno in quell’angolo di casa passo a stento dalla botola, ma provo comunque a vedere se riesco ad entrare. Mi attardo, con solo la testa all’interno della botola, respirando a fondo sempre lo stesso odore. Frugo con lo sguardo e con le mani la penombra che conosco a memoria. Spero di trovare ancora qualcosa, di aver dimenticato di guardare dentro una scatola o dietro un angolo perché sento di averne ancora bisogno. Ma scopro invece che anche papà ha comprato dell’attrezzatura nuova, di cui volentieri nota la leggerezza, l’eleganza e la scarsa durabilità. E così, adesso che anche io ho la mia attrezzatura, forse è giunto il momento che cominci a costruire il mio soppalco.

“Dov’è finito il mio martel… GIACOMO! Ti ho detto mille volte che questa attrezzatura si rovina e poi quando serve non è più buona!”

Colpevole restituisco il martello da roccia a papà, mi rialzo da terra e mi tolgo di dosso la ghiaia del giardino di casa.

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Giacomo D'Ugo

Giacomo D'Ugo

Sono architetto, ma mi sforzo di farlo il meno possibile. Mi piace salire in cima alle montagne, ma non riesco a definirmi alpinista. Sono però profondamente devoto a queste due religioni di famiglia che elevano la fatica e ti circondano di bellezza.


Il mio blog | Ilquintopezzo nasce come uno spazio utile per far rallentare i pensieri. Dopo un incidente in montagna metto per iscritto storie e riflessioni che mi aiutano ad indagare le sensazioni ed i motivi dell’andare in montagna.
Link al blog

10 commenti:

    1. Giacomo Giacomo ha detto:

      Grazie Paola, arrossisco!

  1. Betta ha detto:

    Infanzia, ricordi ,scoperte,colori,sensazioni,emozioni, che bello questo racconto della nascita di una grande passione!

    1. Giacomo Giacomo ha detto:

      Grazie Betta! Alcuni riconosceranno dei riferimenti autobiografici 🙂

  2. paglia ha detto:

    La ruvidità dei materiali, la metodica trama della corda, il colore. Fotografie che descrivono e si intonano perfettamente al sapore di questo splendido racconto

    1. Giacomo Giacomo ha detto:

      Grazie Paglia! Per trarre ispirazione ho proprio “intervistato” questi oggetti, che a quanto pare hanno ancora qualcosa da dire.

  3. Nuzzi ha detto:

    Gli odori, i suoni, le consistenze e le immagini sono resi con una tale chiarezza e semplicità che rendono questo racconto molto più di una metafora. Ci concede di sprofondare anche noi in questo intreccio di infanzia e presente grazie alla sua penna evocativa.

    1. Giacomo Giacomo ha detto:

      Grazie Nuzzi! Sono felice che siano riusciti i passaggi più “sensoriali”…

  4. GG ha detto:

    Che bello quando la lettura di un racconto su “carta” riesce a risvegliare in chi lo legge non solo le immagini ma anche gli altri sensi… bellissimo!

    1. Giacomo Giacomo ha detto:

      Grazie GG! Sono felice che lo scritto possa coinvolgere tutta la sfera del “sentire”!

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